Ad un qualsiasi viaggiatore Portogruaro si mostra immediatamente nel suo impianto architettonico medioevale, caratterizzato da piacevoli costruzioni, con file parallele di portici, sotto i quali eleganti negozi si sono sostituiti, nel corso dei secoli, alle botteghe artigiane. Ma la città solo in apparenza sembra darsi nel modo più completo e totale. Ciò che noi vediamo è l’anima, per così dire, terrestre, quella rivolta alla terraferma, alla campagna circostante, alle altre floride cittadine che occupano i territori verso il Friuli. Ma tra quelle due eleganti vie, ne scorre un’altra seminascosta: è l’anima fluviale, quella che guarda al mare Adriatico, ai grandi spazi d’oriente. Un’anima questa che ha assecondato, per tutta la storia meno recente, la propensione al commercio, alle attività di scambio con Norico, da cui proveniva (e dal 1429 in esclusiva per la Serenissima) il ferro, e con Venezia, da dove arrivavano le spezie orientali. Un commercio tutto documentato dai due preziosi Libri del traghetto, ora conservati nel Museo della Città. Mariegole in duplice copia – una stava a Venezia – dell’arte dei barcaioli, nei quali erano annotati i possessori di grosse barche e le merci che venivano trasportate nel traghetto, la via fluviale che congiungeva la città lagunare con Portogruaro.
Una realtà sociale ed economica parzialmente nascosta all’immediata visione. Il fiume, per secoli, è stato, il cuore della città fin dalla fondazione, nel 1140, tanto che le case padronali si estendevano con barchesse e magazzini fino alle rive. Nei magazzini, e nei granai, venivano depositate le merci e poi trasportate nei mercati del nord, per mezzo di grandi carri. Da tutti e due i luoghi giungeva ricchezza, una ricchezza non sufficiente a competere con la città di san Marco, ma comunque tale da farla gareggiare, con successo, con altre realtà vicine, come san Vito al Tagliamento, Motta di Livenza, Pordenone, Latisana. E fu proprio la via del fiume che permise alla ricca e potente famiglia di banchieri fiorentini, dei Bardi, nel 1371, di prendere d’assalto il municipio ed ingaggiare una lotta con i portogruaresi, dalla quale inesorabilmente uscirono sconfitti. Quella fu un’occasione per chiudere l’accesso via fiume alla città. Venne sistemata una grata, detta appunto rastrello (e che dà il nome all’omonima via) con lo scopo di controllare le barche che vi transitavano.
Le attività economiche fiorirono, tanto da richiedere la costruzione dei Fondaci, ovvero “una dogana per la conservazione e custodia delle mercanzie che quotidianamente dalle regioni superiori a Venezia e viceversa sono condotte e ricondotte”. Il primo fu il fondaco del sale, costruito nel 1200, immediatamente fuori Porta san Giovanni. Palazzo Pari, ne conserva ancora testimonianza nella calle murata, da cui passavano i sacchi del prezioso minerale. Più a valle, venne eretto, nel 1447, il fondaco detto dei “todeschi” poiché fu finanziato dai commercianti tedeschi, i quali lì immagazzinavano le merci da e per Venezia.
I cereali, coltivati nelle zone immediatamente fuori della città, erano invece portati, con grandi barche, nei due particolari molini duecenteschi di proprietà del vescovo di Concordia, per essere macinati. Non vi erano solamente i due molini (ora sede della Galleria Comunale d’Arte Contemporanea) di sant’Andrea, un altro era immediatamente dopo la porta di San Giovanni, nella fossa dell’omonimo borgo.
Ma forse quella ricchezza proveniente dai prosperosi commerci, non doveva essere distribuita con una certa eguaglianza. Accanto ai molini, in prossimità del duomo di Sant’Andrea (che un tempo volgeva la facciata verso il Lemene), esisteva il fondaco delle biade, “detto dei poveri, per beneficenza istituzione dal quale si vendeva il pane e la farina gialla al minuto, a minor prezzo, a vantaggio delle persone più indigenti” (Annali). Segno anche questo di un commercio locale principalmente rivolto ai cittadini, alle persone che abitavano entro le mura. La piazza divenne mercato di cereali, frutta, verdura; la carne invece veniva trattata nella “sua naturale” calle delle Beccherie. Proprio dietro al palazzo municipale c’era un tempo la pescheria, dove i pescatori di Caorle venivano a vendere, in esclusiva, il loro pescato. E sotto la loggia gli stessi vi costruirono, nel 1627, un oratorio in legno dedicato alla Madonna.
Nella piazza principale e nelle immediate vicinanze “donnicciuole e barcaiuoli in perpetuo cicaleccio per le calli e presso i fruttivendoli” che esercitavano la vendita al minuto; ora, osservando attentamente, si possono ancora trovare delle scanalature sulle colonne dei portici, dove venivano incastonate delle tavole, che facevano da banco alle botteghe, mentre accanto “un caffè ogni due usci, davanti a questo la solita tenda, e sotto dintorno a molti tavolini un discreto numero d’oziosi” (Nievo). Queste sono le tracce di una quotidianità, che ha caratterizzato per anni la vita cittadina.
Quest’anima fluviale, che il garibaldino di Fratta ricorda con “puzzo d’acqua salsa, bestemmiar di paroni, e continuo rimescolarsi di burchi, d’ancore e gomene...”, ha certamente dato la possibilità a molte delle famiglie portogruaresi di accumulare ricchezza e di ostentarla in quella piacevole architettura di veneziana memoria; ma questo non era il solo frutto del “correr dietro alla moda di Venezia” (Nievo), quanto uno stile importato da molte famiglie veneziane, che nel corso dei secoli, si sono trasferite a Portogruaro. E allora i palazzi, le facciate, i portici andarono a caratterizzare esteticamente la seconda anima della città. I grandi portoni delle case signorili davano sulle due strade parallele al fiume. Gli androni, i cortili interni facevano da tramite alle barchesse sul fiume. Chi ora percorre queste strade ha immediatamente sentore della storia sociale portogruarese, che si è espressa nell’attuale disposizione urbanistica.
Molte case di un certo valore storico furono abbattute per lasciare posto al nuovo, delineando così una traccia necessaria al nostro viaggiatore per comprendere l’evoluzione artistica e architettonica della città. Gusti, necessità urbanistiche, si sono sormontate e ora si confondono, si perdono nelle quinte delle strade; effetti a dir il vero non sempre piacevoli a causa di stili contrastanti, ma comunque segno del passaggio della storia, del divenire e dell’adeguarsi di una città alla vita dei suoi cittadini. E proprio su queste facciate si trovano gli indizi di una storia tutta Portogruarese, tanto che il nostro viaggiatore sarà certamente attratto dalla bellezza e dalla monumentalità dei palazzi, dalle loro decorazioni gotico–veneziane, che da sempre caratterizzano la città del Lemene. E, a seguir il richiamo della bellezza, spesso l’immaginazione si lascia andare; immediatamente le deduzioni si trasformano in immagini. Già le tre torri (quelle rimaste delle cinque o sei porte di accesso alla città) offrono uno spunto immaginativo notevole. Erano in realtà delle torri a balaustra, aperte nella parte che dava verso il centro, unite tra loro dalle mura con a ridosso delle piccole case, affinché i cittadini fossero sempre pronti a difendere la città. E una volta entrati sotto quegli archi, lentamente si scoprono le bellezze architettoniche: leoni marciani sparsi un po’ dappertutto, diverse patere medioevali ancora incassate sui muri accanto a capitelli corinzi o dorici, a bassorilievi in pietra d’Istria, in marmo o in terracotta. Stemmi della città e stemmi nobiliari scolpiti sui ponti (Portogruaro ne conta ben 15), sulle case, sul palazzo municipale, sulla vera da pozzo del Pilacorte, sulle facciate dei molini, danno testimonianza delle famiglie patrizie che hanno amministrato la città.
Pezzi della Concordia romana, armi gentilizie dei podestà, pitture murali di scuola veneziana, architetture rinascimentali ricostruiscono il senso della storia. Come non apprezzare le decorazioni geometriche dei palazzi Moro, Longo (entrambi recentemente restaurati) e Zovatto; come non fermarsi ad interpretare le citazioni mitologiche degli affreschi dell’Amalteo e della sua scuola sulle facciate delle case Marzotto e Pasqualis o all’interno della chiesetta di san Luigi; come non spendere un po’ di tempo per penetrare nella simbologia dei bassorilievi e altorilievi in cotto di Palazzo Dal Moro, oppure ancora fermarsi ad accarezzare la storia delle colonne romane dagli eleganti capitelli corinzi di Palazzo Muschietti, o a soffermarsi sull’effetto ottico creato dal colonnato del collegio Marconi. O ancora sbirciare gli affreschi che, con figure mitologiche, geometriche, o grottesche, decorano gli androni. Ma chi vuole può ancora ammirare la leggerezza delle finestre dei Palazzi Impallomenni e dal Moro, o di quello De Göetzen, o ancora le trilobate di palazzo Degani, Muschietti e Moro. Ma più affascinante appare scoprire come il Bergamasco, per volontà della famiglia Squarra, abbia disegnato la Villa Comunale senza angoli retti: o ottusi o acuti, in netto contrasto con la loggia superiore, dai leggeri archi a tutto sesto, tipicamente rinascimentali. E qui entrare per visitare un piccolo, ma ricco, museo paleontologico. O individuare, di fronte la piazza principale, l’esistenza di un Monte di pietà – la cui costruzione, nel 1666, ha chiuso una lunga controversia con la comunità ebraica - grazie ad un altorilievo raffigurante una Madonna con bambino. Mentre “su e giù per la podesteria e per la piazza toghe nere d’avocati, lunghe code di nodari, e riveritissime zimarre di patrizi” in bella mostra davanti al palazzo comunale dai merli ghibellini, che stanno lì, in bella mostra, a testimoniare la scelta veneziana, per non sottostare alla dominazione vescovile di Concordia.
Ma la curiosità si apre anche ai personaggi che hanno dato lustro alla cittadina del Lemene. E quando si passa davanti al palazzo Altan–Venanzio, una targa ci ricorda dove nacque il futurista Luigi Russolo, o ancora si ci può raffigurare come il Nievo osservasse, dalle finestre di palazzo Fratto, dove spesso era ospite, il passaggio e il comportamento dei portogruaresi. O scrutare le finestre del Collegio Marconi, da dove si liberavano nell’aria le rime di Lorenzo da Ponte, librettista di Mozart; quali reperti archeologici stimolassero le direzioni orchestrali di Sinopoli o cosa entrasse nei pensieri di Sviatoslav Richter, quando si soffermava ad il lento corso del Lemene. O andare infine indietro nel tempo per immaginare dove pregasse da giovane il patriarca Panciera e vagheggiarsi dove Giulio Camillo del Minio avesse imparato quell’arte di vivere alla corte di Francesco I di Francia o in quell’Escorial voluto da Filippo II di Spagna, e dove viene ancora conservato il manoscritto del suo Teatro della memoria.
Diego Collovini