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AMADEUS
21-02-2015: Di: Peter Shaffer - Regia: Alberto Giusta - Con: Tullio Solenghi

Correva l’anno 1771. Di lì a poco, i venti dell’Illuminismo e della Rivoluzione Francese, avrebbero sconvolto la scena della Storia. Io, Antonio Salieri, nato a Legnago il 18 agosto 1750, ero un giovane di bell’aspetto e di gioviale spirito. Avevo una casa rispettabile, dei servitori rispettabili ed una moglie altrettanto rispettabile  di nome Teresa, da me molto amata che chiamavo affettuosamente “la statua”  (a letto, infatti, non era propriamente un fuoco). Aspiravo a diventare maestro di cappella presso la corte viennese, ma quando arrivai in terra d’Austria scoprii, con mio sommo rammarico, che quell’incarico era stato affidato al signor Giuseppe Bono, il quale, alla veneranda età di novantadue anni, non si decideva a passare a miglior vita (come si dice:-“l’erba cattiva non muore mai”). La mia vita scorreva serena e senza tempeste finchè un giorno  non sentii parlare di lui: Wolfgang Amadeus Mozart. Si raccontava fosse un vero prodigio. Suo padre Leopold lo faceva girare per tutte le corti europee e lo faceva suonare bendato. Ascoltai per la prima volta la sua  musica durante un ricevimento presso il palazzo della baronessa von Swieten. Ero intento a gustare una coppa di amaretti e mascarpone, il mio dolce preferito, quando udii alcune note della Serenata per fiati provenire dalla stanza accanto. All’inizio mi parve una sinfonietta senza capo né coda, poi fui colto da un’estasi improvvisa. Corni, clarinetti e fisarmonica, tutto assolutamente perfetto. Tutto incredibilmente sublime.  Mi alzai di scatto ed uscii in strada. Alzai lo sguardo e guardai le stelle. Fu allora che mi ricordai di te, Padre dei Cieli. Ti incontrai per la prima volta da bambino nel corso di una funzione religiosa. Al termine della celebrazione, decisi di sostare un po’in preghiera. Feci qualche passo verso l’altare e ti vidi laggiù dipinto in un affresco al centro dell’abside. Eri un vecchio imperioso dalla lunga barba bianca annerito dal fumo delle candele e la mia invocazione fu pressappoco questa: “Fa, o Signore, che io possa lodarti e servirti attraverso la musica”. Ma Tu, dall'alto della tua ineffabile eternità, non solo non mi ascoltasti ma, addirittura mi tradisti permettendo a quel marmocchio dispettoso e insolente,  di superarmi in un talento che, fino a quel momento, avevo ritenuto essere soltanto mio. Per fortuna il tempo fece il suo mestiere ed in pochi mesi non seppi più nulla di lui. Perciò, pensando che la sua musica fosse davvero poca cosa, non ci misi molto a curare le ferite del mio animo e fu davvero un piacere  per me accoglierlo alla corte degli Asburgo, quando, ormai sedicenne, giunse al cospetto dell’imperatore  Giuseppe II. Gli diedi il benvenuto con una marcetta allegra ed orecchiabile. Lui ascoltò la prima parte, poi proruppe in una fragorosa risata: -“Il resto è tutto uguale vero?”- mi chiese con sottile sarcasmo.   “Si…”- risposi con un filo di voce. Lui, per tutta risposta,  si sedette al fortepiano: “E se noi la suonassimo cosi?” Le note gli scivolarono tra le dita ed in un attimo, giocando con temi e variazioni,  trasformò quel pezzo senza pretese in un brano degno di una sala da concerto. Dopo aver assistito impotente al trionfo di quel ragazzino senza arte né parte, mentre il leone della vendetta ruggiva dentro di me, mi congedai dall’imperatore. Dopo i primi successi e il matrimonio con la bella Costanze Weber, però,  anche per il mio rivale i tempi iniziarono a diventare difficili. Il denaro cominciò a scarseggiare e i committenti divennero sempre più rari. Un giorno Costanze bussò alla mia porta  chiedendomi di intercedere presso l’imperatore affinché suo marito potesse diventare insegnante di musica di sua figlia, la principessa Elisabetta d’Austria. Sulle prime, rimasi alquanto stupito dalla sua richiesta, ma quando ella mi fece vedere un quaderno rilegato in pelle con le partiture dovetti  ammettere, dolorosamente, l’indiscussa superiorità del suo genio. Quei fogli erano totalmente privi di cancellature. Era come se quelle melodie fossero già complete nella sua testa. Anche agli occhi della critica più benevola, le mie  composizioni potevano apparire soltanto come ghirigori a lungo meditati senza alcun confronto. “Grazie, Signore, grazie di avermi fatto restare muto di fronte ad un così grande talento!”- pensai. Decisi, dunque di giocare l’unica  carta a mia disposizione. Non degnai d’ascolto le insistenti suppliche della donna, e chiesi ad un mio amico di diventare il precettore della ragazza. Quel giovanotto impertinente che riteneva che le mie opere, piene d’antichità e d’amor di patria, fossero “merdose” meritava una bella lezione. Pensate che quando gli commissionarono “Il ratto del serraglio” ebbe la sfrontatezza di affidare la parte del soprano a  Caterina Cavalieri, una delle mie più promettenti allieve! Ma le parole che mi disse quel giorno, stando in piedi sul fortepiano furono davvero memorabili: “Sono stufo di miti ed eroi, voglio raccontare la vita, l’amore che rapisce tanto i nobili quanto le prostitute, entrando nei palazzi come nei bordelli. E l’occasione giusta si presentò nel 1786 con Le nozze di Figaro.  Lessi la trama e subito ritrovai nella vicenda tutte le sfumature che colorano il più nobile dei sentimenti umani: l’amore ancora acerbo e quello appena sbocciato, quello ormai logoro, senza alcuna passione e quello maturo.  Aveva anche osato trasformare l’allegra marcia con la quale avevo accompagnato il suo ingresso a corte in un aria d’opera ed i primi versi recitavano: Non più andrai farfallone amoroso/notte e giorno d’intorno girando/ delle belle disturbi il riposo/Narcisetto, Adonino d’amor./ Ma, l’idea più rivoluzionaria fu, senza dubbio, l’inserimento di un balletto alla fine del terzo atto. Ancora una volta quel giovane dal carattere puerile e libidinoso aveva osato sfidare l’Imperatore e il suo assoluto divieto di rappresentare balli in scena per non istigare l’odio tra classi sociali. E quando  mi chiese un parere sulla sua opera,  io strappai con rabbia la pagina incriminata e dissi con un sottile velo di compiacimento: “Signor Mozart volevo ricordarle che a corte i balletti sono vietati!” Ma quel pivello pieno d’ambizione non avrebbe certo rinunciato alla sua nuova creazione e, in accordo con il suo librettista Lorenzo Da Ponte, pensò di invitare l’Imperatore ad assistere alle prove e fece eseguire il pezzo muto. Con mia grande sorpresa, Giuseppe II ordinò che la musica fosse prontamente reinserita. Quello fu per lui il suo riscatto e quella fu per me la definitiva sconfitta. Ormai non vedevo più alcuna luce in fondo al tunnel, ma soltanto il definitivo tramonto della mia carriera artistica e così giocai la mia ultima mossa. Cercando di non cadere nel vortice dell’invidia che, giorno per giorno, stava divorando la mia persona, richiamai alla mente un incubo che da tempo popolava i sogni notturni di quello che ormai consideravo il mio acerrimo nemico. Egli, infatti, mi aveva confidato di avere la visione di un’inquietante figura vestita di nero e, preso da un indicibile tormento, si domandava se fosse la Morte o il fantasma di suo padre scomparso molto tempo prima. La notte successiva, quindi, passai all’azione: indossai un mantello scuro e mi recai a casa sua. Le strade erano deserte e, da lontano, la sua stanzuccia pareva una topaia. Alla luce fioca di una candela stava componendo la Messa da Requiem KV 626, il suo testamento. Scriveva, scriveva, e ancora scriveva, come in preda ad una fulminea ispirazione mentre il freddo gli penetrava nelle ossa.  Bussai alla porta: “Sono venuto a prenderti!” “No…!!!  Ti prego, Morte, non adesso!!! Manca ancora il Kyrie!” Non voglio andarmene prima di averlo terminato!” Poi alzò gli occhi e mi fissò: “Papà!” – esclamò a gran voce esultando con la stessa meraviglia di un bimbo. Se ne andò così, tra le mie braccia, Wolfgang Amadeus Mozart, stroncato dagli spasmi provocati da una colica renale. Sua moglie fece appena in tempo a stringergli la mano. Lo stesero sopra un tavolo, poi lo gettarono in una fossa comune e gli buttarono sopra della calce fresca, come si fa con coloro che il tempo aiuterà a dimenticare. Solo allora mi resi conto che colui contro il quale avevo strenuamente lottato altro non era che  un uomo rimasto bambino. Ed ora, vecchio e cieco quale io sono, dopo aver sparso la voce, totalmente infondata, di averlo avvelenato per provare a distruggere almeno la sua immagine agli occhi del mondo, abbraccio tutti i mediocri come me e comprendo che essere vivo è la mia punizione, poiché la mia musica sarà destinata all’oblio, la sua invece regnerà immortale nei secoli SU TUTTA LA TERRA!!!
Mercoledì  5 novembre 2014, alle ore 21.00 Tullio Solenghi, signore dei monologhi, apre la stagione di prosa 2014-2015 proposta dal Teatro Russolo, nei panni di un inedito Antonio Salieri. Un Salieri che non ammicca al pubblico e non cerca la sua complicità, ma descrive con assoluto realismo e grande intensità il suo tormentato rapporto con Mozart, passando con destrezza e versatilità dal linguaggio seduttivo della gioventù a quello aulico della vecchiaia. Dalla fresca e ritmica drammaturgia di Peter Shaffer e da  una scenografia composta da una lunga parete laterale e da varchi a sfondi praticabili, aperti su altri ambienti, emergono, poi, i ritratti degli altri personaggi in eleganti abiti settecenteschi; la tenera e sensuale Costanze, (Arianna Comes), l’Imperatore (Davide Lorino) il Barone (Roberto Alinghieri) e il Conte (Andrea Nicolini) totalmente credibili nella loro insensibilità ed incomprensione nei confronti del nuovo astro della musica  e il simpaticissimo Venticello (Elisabetta Mazzullo) che, con le sue movenze da clown, ben si presta a narrare i pettegolezzi e le dicerie sul compositore di Salisburgo. Maschere caratteristiche della commedia del carattere che contribuiscono, con magistrale efficacia, a fare di Wolfgang Amadeus Mozart un vero ed autentico profeta del suo tempo.

E.T

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