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Annotazioni
Il “Fogher d’oro” di Terrida
19-12-2011: Una sincera rivisitazione dei cibi locali per rilanciare la ristorazione turistica

Una recente rilettura del secondo numero della rivista “Il Bàcaro –andar per gusto”, pensato e realizzato da Vincenzo Zollo, direttore editoriale del quotidiano portogruarese “on line” Portogruaro.Net, mi ha fatto sorgere l’ubbia di accennare alla storia culinaria della mia vita. Non deve parere supponenza ma semplicemente un piacevole ricordare tappe soggettivamente importanti che legano il cibo a particolari situazioni: povertà, guerra, fretta contadina di giungere a conquistare la “renga” al centro della polenta, addetto fornaio nel ’38, recupero del cibo al Km zero, non come scelta intelligente del primo decennio del secondo millennio che invita a scegliere alimenti locali, ma come necessità dettata da ciò che nasceva nell’orto con limitate produzioni che spuntavano puntuali rispettando la stagionalità che il Padre Eterno aveva loro assegnato. E poi il mangiare veloce tipico dei “villici”, che potevano rimpinzarsi solo nelle grandi feste comandate, Pasqua e Natale, e in occasione dei matrimoni, che iniziavano con il pranzo delle 12 fino a tardo pomeriggio per riprendere poi la sera la cena che si protraeva con una lunga serie di caffè col “resentìn”, possibilmente di campo: si chiamava così la grappa che si otteneva di contrabbando, in qualche luogo dei campi, meglio nel fondo di un fosso asciutto, di notte, distillando le vinacce di nascosto per sfuggire alla tassa di produzione imposta dalla Finanza. Tutti i contadini, o quasi, ne avevano una scorta decente, non certo per commerciare, ma per loro uso personale. La bevevano tutti: persino ai neonati davano da succhiare il dito prima bagnato nel liquore della distillazione: nessun piccolo storceva la bocca. Il “resentìn” solitamente usato nelle grandi occasioni, era costituito da un goccio generoso di grappa, possibilmente di campo, che serviva a ripulire la tazza dagli ultimi schizzi e grumi di caffè. Una maniera generosamente alcolica di ripulitura della tazzina, anche perché di caffè col “resentìn” dopo il pranzo fastoso e la cena caratterizzata da fantastiche erbe cotte, dolci-amare , il “resentìn” finiva per ripulire anche lo stomaco, un digestivo campagnolo, il tradizionale “amaro” da 80 gradi che finiva per “ammazzare “ un corpo già adusto, impigrito e piegato da un cumulo di vino, non più assorbito da tutto il cibo ingurgitato durante la giornata. Fastose ricreazioni alimentari intemperanti e senza regole, che sicuramente non raggiungevano la denominazione di “scelte gastronomiche”, accontentavano grossolanamente lo scopo di – andar per gusto – salvo che oggi la quantità di cibi assunti ci sembra troppo elevata. Ma tutto bisogna riferire a quei tempi: l’orso e altri animali prima di andare in letargo si nutrono in maniera adeguata; nel ’50- ’60 , anche se il letargo non era previsto si profittava di queste occasioni per fare provvista di vitamine, proteine e altri vitaminici. Cominciando dalla fine, inizio a parlare di gastronomia, cioè di cibi non grossolani, ma scelti, delicati, gustosi, di preparazione originale. Mangiare la preda della cacciagione, o gli animali da cortile, in maniera primitiva, era un semplice mangiare; il fatto diventava gastronomia, quando la carne veniva per esempio insaporita da salse più raffinate rispetto al “crèn”.

Il “Fogher d’oro” fu, una delle iniziative promozionali inventate dal genio enogastronomico di Pasquale Terrida di Pramaggiore, dove continua a imperare un’assoluta indifferenza per chi, gratuitamente, ha donato ricchezza a un numero altissimo di contadini, del Nord Est e del Basso Friuli, che in tanti anni non hanno speso una lira, scusatemi, un euro, per ricordarlo. Il busto è solo una farsa… Ne ho già parlato in passato. All’inizio, nel secondo dopoguerra, Terrida aveva cominciato con il vino, migliorandolo con l’aiuto degli esperti di Conegliano, cambiando viti, provando nuovi innesti, migliorando i metodi di coltivazione e una trasformazione più scientifica dell’uva in mosto prima e quindi in vino. E questo per impedire quello che di solito accadeva nel passato nel Veneto Orientale; e cioè il vino già dopo qualche mese, diventava acetoso e i contadini continuavano tranquillamente a utilizzarlo aggiungendovi dell’acqua: venderlo? Figurarsi! Si tratta dello stesso Pasquale Terrida che veniva ricordato semplicemente con un non eccelso busto di bronzo posto all’ingresso della sede della Mostra nazionale dei vini, Mostra che lo stesso Terrida aveva ideato. Una torneazione di vini del posto e di tutte le altre regioni italiane (tutte), per spingere i locali a migliorarsi perché i vini più equilibrati e, selezionati da esperti ottenevano graditi bollini di riconoscimento che permettevano ai produttori di guadagnare moltissimo. Da anni il busto di Terrida è scomparso e fu proprio con una notizia diramata dal quotidiano on line Portogruaro.Net, che a Pramaggiore presero atto della strana “assenza” della figura di Terrida. Pensarono che fosse finito in magazzino. Rubato? Collezionato da qualche amatore? Rifuso? Il fatto non è mai stato chiarito e dell’eventuale autore del “furto” non ci furono ricerche convinte.

Poi Terrida cominciò a organizzare il “fogher d’oro”: era un riconoscimento, raffigurato da un “fogher d’oro” in miniatura, che veniva assegnato a qualche gestore di trattoria o di ristorante, per un piatto speciale; il riconoscimento era ambitissimo, perché significava un’ immediata pubblicità attrattiva per i buongustai alzando immediatamente le “azioni” del locale.

Terrida del premio aveva fatto una cosa molto seria. Una volta che fui scelto da Terrida come “giudice” in questi esami gastronomici, accennai alla mia non propriamente accademica preparazione all’assaggio dei piatti, e in un’occasione gli chiesi un qualche aiuto nella valutazione di questo o quel cibo in gara. Mi rispose duramente che dovevo arrangiarmi. Votassi come volevo, obbedendo soltanto a quello che “sentivo”. Con lui non c’erano pastette, imbrogli, mazzette come oggi e perciò trattorie e ristoranti si battevano per il premio, migliorando in maniera costante i loro piatti, la loro originalità, il loro sapore e anche il modo di presentare a tavola; il punteggio aumentava con l’apporto di un buon vino e la signorilità del servizio. Cominciò in sordina in locali poco importanti, poi allargò la cernita, cointeressando anche ristoranti del Basso Friuli, e di Treviso in particolare, che avevano già molto di “proprio”, e una fama notevole, specialmente per i risotti, favoloso quello ai funghi. E infine i centri balneari. Avere qualche ristorante premiato con il “fogher d’oro” significava potenziare il turismo della zona. Il mangiar bene o “l’andàr per gusto” come canta la rivista specializzata “Il Bàcaro” , era ed è ancora un elemento non secondario per la pubblicizzazione delle spiagge. Non più il pesce azzurro con qualche scottatura ai ferri, ma piatti prelibati, attinti dalla tradizione, ma resi più elevati nella scala dei valori, da chef sempre più attenti e preparati. Rivisitare l’antico, il desueto, per ripresentarlo mantenendo inalterate le loro caratteristiche originarie, ma nobilitandolo con qualche magico tocco, rivalutarono il “cibo” in maniera eccezionale. Ne approfittarono immediatamente il turismo della nostra costa adriatica, e anche locali dalla parte del Piave e della Patria del Friuli. La mia esperienza negli assaggi, ai quali ero regolarmente invitato era nulla o quasi. Terrida mi voleva forse proprio per la mia inesperienza, per trarre dalla somma dei voti “genuini e ancora incontaminati” preziose e oneste conclusioni per il premio da assegnare. E ora un cenno alla mia favola culinaria.

Da infante avevo cominciato con i “zuffi”, un cibo perduto: zucca lessa, farina di grano e di polenta gialla, latte freddo e zucchero. Nella versione più povera: latte e polentina gialla. Nel periodo del terrificante secondo conflitto e per il lungo trascorrere grigio dopoguerra, il maiale svolse una funzione salvifica come la patata nell’Irlanda nel ‘600 e ‘700. Introdotta nel 1606 , diventò nello spazio di due generazioni l’alimento base e a volte unico della popolazione povera del Paese così letteralmente strappata alla morte per fame. Storia. Nella giovinezza calcistica di Villanova, dove ora si stanno tristemente e miserevolmente affumicando con la “stufa” da soldi dei Marzotto, incontrai per la prima volta i celebri tartufi. Leo Corponi, presidente della squadra di calcio di cui facevo parte, la Sfai, era solito a fine campionato offrirci un sostanzioso pranzo in un grande e celebrato ristorante, oggi trasformato in ultimo alloggio di anziani, un pò danaroso, perché la retta costa. Risotto ai tartufi, seppi dopo. Corponi a fine pranzo mi chiese un parere. Ero un po’ il portavoce della squadra, il gruppo di amici più bello della mia vita. “Presidente, cominciai prudente e dubitoso, sono sicuro che lei ci ha offerto il meglio, ma probabilmente dentro c’era qualcosa che turbava il nostro palato, aduso specialmente alla “pasta e fasioi”. Ci aveva turbato il nobile e costoso “tartufo” per il quale però ci vuole una certa preparazione all’uso, per carpirne le voluttuose qualità papillo gustative. Devo chiudere, se no rischio di scrivere un libro; ma non posso dimenticare l’incontro con il risotto di pesce negli anni’50 in uno dei ristoranti più raffinati di Trieste, patria dei padroni del “Cognac”, che estendono il loro potere in centri di produzione e di deposito di stagionatura in quasi tutto il mondo. Avevano fatto costruire in via dei Sigari a Portogruaro un enorme fabbricato con una quantità infinita di botti per il liquore.
Perciò invitarono a Trieste, in segno di cortesia, la Giunta di Portogruaro, di cui facevo parte come più giovane assessore d’Italia, pieno di nozioni liceali, appassionato nella mia appena iniziata funzione amministrativa, ma decisamente inesperto, specie in occasione di questi pranzi fastosi, ricchi di sorprese gastronomiche che non mi erano famigliari. Si cominciò con un fragrante piatto di pesce che non tardai a irrorare di formaggio grana, che mi piaceva. Sentii la voce del sindaco, piemontese ( … e cortese) che subito a voce alta e implacabile, come fossi un suo alunno e scolaretto, mi bacchettò facendomi notare che sul risotto di pesce “il formaggio non si ha assolutamente da spargere”. Non mi preoccupai della mia ignoranza gastronomica, mi arrabbiai invece per questa inutile e supponente lezione a un giovane inesperto, ma suo collega di Giunta. Poteva risparmiarsela. Sarebbe stato opportuno e acculturato sorvolare. Mi venne inaspettatamente in aiuto un signorile azionista della multinazionale del cognac. “Ma signor sindaco, disse, non c’è nessuna grammatica del cibo che vieta di cospargere formaggio sul risotto di pesce e ricordi “De gustibus ….”. Gliene fui grato e anche molto più tardi continuai ermeticamente a cospargere il risotto di pesce di formaggio grattugiato, anche se avevo capito che insomma il sindaco piemontese una qualche ragione l’aveva. Poteva però risparmiarsi di denudare la mia ignoranza gastronomica giovanile, in quella tavolata di personaggi, e ricordo sempre con riconoscenza l’aiuto del signore:
“De gustibus non est disputadum”.
Il resto, se me lo permetteranno i miei capi, a una puntata successiva.
Grazie dell’attenzione, se c’è stata e buon Natale.
 
Ugo Padovese


(immagini di Fotoreporter - Portogruaro)

Inserito da stelvio il 23-12-2011 11:30:25
Grazie Ugo
Grazie Ugo per i tuoi begli scritti, che ci confortano in questo periodo di nebbia intensa. Continua che abbiamo bisogno di TE. AUGURI DI SERENO NATALE E DI INTENSO 2012.

Inserito da Ugo Padovese il 24-12-2011 09:43:42
Risposta
Caro amico Stelvio, grazie per gli auguri che ti sono stati suggeriti dall'amico comune Pasquale Terrida: un grande personaggio che purtroppo ricordiamo in pochi. Importante testimoniare, cone fai tu molto bene e mi sforzo di fare anch'io. Un sereno Natale, ma anche per i giorni seguenti; ugo padovese
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