Domenica 23 agosto 2015 alle ore 21.00, dopo tre estenuanti giorni di viaggio, Babele mi accoglie in lontananza, con le sue mura dorate, gli edifici di culto sull’acropoli, e il mercato arabo che pullula di persone d’ogni popolo e nazione. Al centro della piazza c’è lei, la Torre. Alta, imponente, maestosa, nera. Sulla sua sommità s’intravvede una guglia impreziosita da un pinnacolo simile a quelli che svettano sulle cupole delle basiliche bizantine. Quel capolavoro architettonico era ormai sulla bocca di tutti. Qualcuno aveva addirittura osato dire che gli abitanti l’avevano costruita in una sola notte animati da un solo spirito: trasformare quel luogo senza tempo in un vero e proprio Regno della Sperimentazione Musicale. E così, un giorno, Re Saul decide di inviarmi, come suo ambasciatore, in quella città sconosciuta per visitare il misterioso edificio. Dopo aver oltrepassato una porta strettissima e quasi scardinata, salgo rapidamente i gradini d’una scala a chiocciola che pare non finire mai. Arrivato in cima, mi ritrovo in una stanza angusta e buia illuminata soltanto dalla fioca luce di una candela con quattro tappeti orientali appoggiati alle pareti, un vecchio tavolo visitato dai tarli, una penna d’oca, un calamaio e un diario di bordo rilegato in pelle scritto da un mercante di Saba recatosi nelle Indie molti secoli fa. Istintivamente faccio qualche passo verso la scrivania e mi siedo su una comoda poltrona di velluto rosso. Apro con trepidazione il quaderno e, con mia grande sorpresa, scopro pagine fitte d’appunti che raccontano l’esistenza di mondi inesplorati. Ad un tratto, la leggerezza del clarinetto di Alessandro Carbonare e dei sassofoni dell’Italian Saxophone Quartet, attira il mio orecchio in un abbraccio libero e vivace, tanto che è veramente impossibile non avvicinarsi per ascoltare il vibrante suono degli strumenti che brillano al buio quasi fossero d’oro. È un jazz dal ritmo incalzante, decorato con pennellate di blues, quello con il quale, quegli uomini, dall’aspetto minuto e dal portamento elegante, mi danno il benvenuto, prima di portarmi con loro nel vorticoso ritmo delle danze greche che compongono la Suite Ellenica per quartetto di sax di Pedro Iturralde. Improvvisamente, uno stormo di uccelli rossi riempie il cielo lasciando dietro di sé una scia d’arcobaleno. Ed ecco che, come per magia, la nera Torre si colora di mille macchie come un quadro impressionista per salutare l’ingresso dei Solisti dell’Orchestra Filarmonica della Fenice. Ed è davvero curioso il dialogo che nasce dall’incontro tra i fiati, il contrabbasso di Christine Hook, il pianoforte di Roberto Plano e la chitarra di Marco Musso. Anche Enrico Bronzi, il direttore d’orchestra, sembra perdersi nell’armonico vortice dell’Ebony Concerto per clarinetto e jazz band di Igor Stravinskij e del Prelude, Fugue and Riffs di Leonard Berstein dove la musica nasce, muore e si rigenera in quell’eterno ritorno dell’uguale che dona vita all’esistenza dell’uomo.
Calliope
(Elena Toffoletto)