Al mercatino dell’antiquariato, che si tiene ogni secondo sabato del mese a Portogruaro, ho visto un pannello in legno in cui appariva, in lettere un po’ sfumate per il tempo, la scritta “Qui non si parla di politica”. Erano consigli affissi specialmente all’interno delle vecchie osterie e risalivano, come è facile comprendere, ai tempi del “ventennio fascista”; per non fare confusione, preciso che il ventennio in parola era quello dell’inizio del secolo scorso. C’erano anche altre targhe con una scritta diversa, ma sempre un po’ inquietante “Attento, il nemico ti ascolta”. Mi ricordo che la mia buona maestra elementare, che non era una fissata, ma doveva in qualche modo allinearsi con l’allucinante atmosfera fascista, ci spiegava il significato di queste frasi, a fatica. Difficile la comprensione di quelle parole per uno scolaro di 6 anni; frequentavo infatti la prima elementare in un plesso attiguo a via Silvio Pellico. Ero nel terzo banco a sinistra guardando la cattedra, assieme a un certo Nadali, sempre fornitissimo di pennini nuovi lucenti, che scambiava volentieri con qualche aiuto o suggerimento. Era figlio del gestore di un ristorante, famoso per la selvaggina, in un frequentatissimo locale di via Cavour, e quindi poteva permettersi di usare i pennini non solo per scrivere, ma anche come oggetti di scambio. A distanza di quasi settant’anni ogni tanto ci incontriamo e pensando alla preziosa merce di scambio che distribuiva con grande generosità, mi viene sempre da chiedergli scherzosamente: “ Ma gastu ancora quei bei pennini della scuola elementare ?” E mi chiedo come mai, lontani “anni luce” dall’inizio della seconda guerra mondiale, ci si possa ancora incontrare con scritte di questo genere: “Qui non si parla di politica”, “Attento, il nemico ti ascolta”. Ne chiesi la ragione al commerciante che esponeva queste “reliquie” un po’ dissennate. Questa la risposta: “I nostri vecchi non buttavano via niente, nella sottintesa convinzione che anche queste cianfrusaglie potessero prima o poi servire ancora; magari senza porsi assurde ipotesi ripetitive della validità di quegli “ordini”, ma solo per un riflesso automatico dettato da un’abitudine esasperata al risparmio”. Evidentemente le scritte erano finite in soffitta; ritrovate casualmente in questi ultimi tempi, a qualcuno sarà venuto in mente qualche strano nesso con quelli attuali. E che viviamo in un’atmosfera in cui sia a volte pericoloso parlare di politica o che ci viene di tacere istintivamente quando incontriamo qualche tifoso di personaggi votati con successo alla “supremazia assoluta e santificante”, appare non del tutto assurdo. Nulla è quindi da buttare, anche se i tempi cambiano e il “Nemico che ti ascolta” è magari un “cittadino” che si crede libero, mentre invece fa parte della schiera dei servi cortigiani. Ma mi viene subito in mente anche l’altro pannello: “Qui non si parla di politica” e quasi quasi mi astengo dal fare considerazioni di tal genere. La frase “Nulla è da buttare” in verità l’avevo in mente anche per un altro motivo; avevo letto da poco un libro intitolato proprio così, a firma di un vecchio prete, che a quel “Nulla è da buttare” riservava un diverso significato: sosteneva la necessità di non dare giudizi infondati, di cercare in qualsiasi individuo tracce, pur tenue, di valore; scoprire anche nelle persone più umili atteggiamenti difficili da intuire, ma ancora carichi di una ricchezza morale da rispettare e difendere. Non invento. Conosco l’autore del libro, mons. Luciano Padovese, che faceva interessanti riflessioni su questo “Nulla è da buttare” con il suo editore dott. Giovanni Santarossa. Tralasciando di pensare magari al pericolo di qualche nuovo “ventennio” di conio diverso ma di altrettante assurde e illiberali conseguenze, mi sono ricordato di un vecchio barbone portogruarese. Viveva di alcool, abitava in una puzzolente stanza in un vicoletto di via Martiri di quelli che portano ancora al Lemene; stracci indosso e assoluta mancanza di deodoranti. Da buttare? Amava la libertà. Si era sempre rifiutato di essere ricoverato in Casa di riposo; di giorno dormiva felice al sole d’estate sdraiato su una panca di legno ai lati della Piazza del Municipio, quello con le guglie che attirano l’attenzione di qualche turista straniero di passaggio, che poi guarda con la testa in su anche il campanile pendente. Il barbone amava la libertà; raramente chiedeva un piccolo prestito: “No go schei per un’ombra de vin, ma te i torno appena che i me dà la pension”. Ed era di parola. Una volta gli ho chiesto se ricordava sua madre; mi ha risposto con il volto inumidito da una lacrima. Ricordava e amava ancora. Non era da buttare. In Casa di riposo lo avevano lavato e rimpannucciato; senza più barba e con il viso bianco e pulito, sembrava irriconoscibile e triste, anche se qualche volontario lo spingeva in carrozzella, specialmente il giovedì, giorno di mercato, per distrarlo. Morì di melanconia dopo appena tre mesi. Ma io non ho parlato di politica.
Ugo Padovese
(immagini di Fotoreporter - Portogruaro)