Messere e messeri buonasera. Siam qui giunti nell'ameno loco de lo teatral sentire per farvi ascoltar la voce di un de' più famosi novellieri d'ogni tempo nato a Certaldo nel 1313 Giovanni Boccaccio era nomato. Dovete saper infatti che nel 1348, mentre l'ombra della peste s'allungava su Fiorenza, dieci giovani si rifugiaron su una collina ed iniziaron a raccontarsi tra lor dieci novelle per dieci giornate e queste novelle, raccolte insieme dieder vita a lo Decamerone nato dalla penna di messer Boccaccio appunto. Voi or mi direte: Ma quei dieci giovincelli invece che star a favellar insieme inutilmente non potevan piuttosto aiutar la lor disgraziata gente? Ragion voi avete e molta, ma quei giovani, in siffatto modo, ringraziar volevan lo Divin Padre d'esser ancor vivi. E noi che siam convinti che che anche questo nostro tempo abbisogni di una nuova speranza abbiam pensato di raccontarvi sette di queste cento novelle con i loro inganni le beffe e le truffe Voi or mi domanderete: Cosa potrà mai insegnar cotal novellier a l'epoca nostra? Ordunque ascoltate molto attentamente ciò che ho da dirvi: Io son Panfilo (Stefano Accorsi), menestrel dell'arte della narrazion e v'assicuro che, non passa giorno alcuno senza ch'io veda a destra gente che inganna e a manca gente che arraffa denaro da mane a sera e da sera a mane. Perciò noi riteniam che lo nostro tempo molto abbia da imparar da lui. Non attendetevi però d'ascoltar l'original sua lengua essa infatti è di si ardua comprension ch' io e la mia compagine tutta, molto abbiam lavorato su codesto linguaggio affinch'esso potesse esser meglio inteso da lo pubblico odierno. È giunto il momento, c'h'io vi presenti il resto della compagnia de la quale a me spetta lo governo: Fiammetta, l'Innamorata (Silvia Ajelli), Filostrato il fedele, (Salvatore Arena) Elissa, la generosa, (Silvia Briozzo) Pampinea, la giovine (Fonte Fantasia), Dioneo, lo scaltro (Mariano Nieddu). Ah assai importante cosa ho dimenticato: Questo sgangerato carrozzon è il rifugio d' ogni attor. Quivi infatti ei divien personaggio e trova tutto ciò che serve per dar vita alle sceniche azion: dalle giubbe ai mantelli passando per tuniche e arlecchinesche pezze. Ma or, dato che il tempo fugge, occorre che noi c'apprestiam tosto a principiar la primiera novella. V'era dunque in Imola un tal Berto da Massa noto a tutti gli imolesi per esser uom di malaffare tanto ch'egli decise di migrar in quel di Venegia per cercar di cambiar vita dove niuno il conoscea e la divenuto cattolico, decise di farsi frate minore e si fece chiamar Frate Alberto. Li suoi sermoni eran così pieni di spirito e dolcezza ch'ogni donna si fermava ad ascoltarlo in un silenzio quasi solenne. "Donate!"- ei dicea- "Donate a un povero frate in nome di Dio!" Avvenne dunque che, tra lor v'era una certa Lisandra che molto colpito egli avea co' suoi discorsi tanto che un giorno lo frate si fermò in disparte a favellar con lei e, rapito dalla sua bellezza domandolle si ella qualche amador avesse. Ella rispose d'esser maritata e che non v'era nessuna dama più bella di lei nemmeno in Paradiso. Ordunque frate Alberto tosto comprese ch'ella potea far al caso suo e così di lei subitamente ed oltremodo s'innamorò. La notte seguente, dunque si recò a casa sua e le disse d'aver avuto la vision dell'angiol Gabriello il quale dopo averlo ben bussato con un un grosso bastone poiché s'era permesso d'amar una creatura come lei già amata da Dio sopra ogni cosa, gli disse di voler giacer con lei per una settimana ma, essendo di spirto fatto, egli avea bisogno d'un corpo per divenir carme. E così lo buon frate, ricolmo d'ogni grazia, ben volentieri s'offerse di diventar dimora de lo messaggero del Signore. Donna Lisandra non credea a ciò che avea inteso ma ecco che il miracol predetto avvenne e i due amanti stettero uniti per più e più notti nutrendosi l'un l'altro de lo don d'amore. Or avvenne che donna Lisandra non sapendo tener a freno la lengua sua, lo giorno appresso, durante lo mercato, raccontò ad un' amica la lieta novella ch'ella narrò prontamente a l'altre comari di Venegia, sicchè la bizzarra storia, passò di bocca in bocca fino a giunger agli orecchi de' cognati di lei i quali presero a inseguir lo malandrino per ogni calle. Il poveretto vedendosi inseguito, vagò per tutta la notte e infin trovato dai cognati si gittò in un canale. Così bagnato fradicio ch'era, chiese d'albergar presso la casa d' un pover uomo, il quale mosso a compassion nel suo letto il mise. I cognati giunti nella camera trovaron che l'angiol Gabriello fuggito sen'era e lasciate l'ali avea e se ne tornaron a casa loro co' quei suoi arnesi. Appena il dì fu chiaro, il buon uomo salendo sul ponte di Rialto venne e saper dell'angiol Gabriello e della sua curiosa vicenda così, durante la festa del Carnivale, il condusse nella pubblica piazza dove da tutti rionosciuto , venne a dover punito. Eh sì, messere e messeri, Panfilo ben comprende che voi vorreste che tutti li malandrini venisser puniti ma questa, sapete com'è l'è sol che una novella che serve a sperar. Se però vedete che qualcun tra li potenti fastidio vi dà andate pure da Filostrato che molte piume dell'angiol Gabriello seco ha, così' l solletico a lor potrete far! Or che Panfilo il suo racconto ha terminato, vi dirò ch' io son Fiammetta e son qui per narrarvi, una bella novelletta che per suo centro ha la gelosia, morbo contagioso che colpisce tanto le madonne quanto li homini e assai difficil da debellar. V'era infatti a Rimini un tale così ricco di possessioni e di denari che l' trattava anche la donna sua come fosse una possession. E così egli serrata in casa la tenea peggio ch'ella fosse in una prigion chiusa tanto che la povera derelitta nemmen affacciarsi alla finestra potea. Ma ella era decisa a non barattar con nessuno la sua libertà e così un giorno, si mise a ispezionar, la parete de la dimora sua e vide un pertugio che s'affacciava proprio su la camera d'un giovane gentile e di bell'aspetto tanto che, ella dopo averlo guatato, solo per un secondo perdutamente s'innamorò, ed in brieve tutto l'animo suo gli aprì. E il giovane, così contento si fece, che da la parte sua il pertugio maggior diventò e quivi spesso i due, lontan da lo sguardo de lo geloso insiem si favellavano e toccamvisi le mani. Appressandosi la festa di Natale, la donna chiese a lo marito di andarsi a confessare come tutti i cristiani fanno. Lo marito contento si mostrò ma pose a lei il veto d'andar in ogni chiesa tranne che la cappella appresso a la lor dimora. La donna tosto s'avviò verso la chiesetta e lo geloso fece l'istesso bramoso di capir quali peccati ella commesso avesse. Così, messosi li sacri paramenti d'un sacerdote ed un cappuccio in su la testa si mise a confessar la donna, la quale dopo averlo prontamente riconosciuto per via de lo suo tono di voce si risolse di dargli la risposta ch'egli andava cercando e perciò dissegli d'essersi innamorata d'un prete il quale ogni notte con lei s'andava a giacere. All'udir queste parole il geloso sentì come una coltellata al cuore e domandossi come potevan lo prete e lo marito giacer insieme alla donna. Ella che assai acutamente nei suoi pensieri letto avea, risposegli che ogni notte lo sacerdote giungea appresso all'uscio della sua stanza e dicea certe parole per le quali lo marito suo subitamente s'addormentava e così li due amanti potevan liungamente darsi buon tempo. Terminata la confession lo marito a la dimora sua tornò deciso a trovar lo modo per coglier sul fatto i due amdori e così, quella stessa notte, egli si pose a guardia dell'uscio ad aspettar la venuta del prete. Intanto la donna serrò prestamente tutti gli usci compreso quello a mezza scala acciò che lo geloso venir suso non potesse e disse al giovane di venir appresso alla sua stanza passando per lo tetto. Infin lo geloso provato tanto nel corpo, quanto nello spirito, chiese alla donna che cosa avesse detto al prete con il quale confessata s'era ed ella, così gli rispose: "Caro marito mio, credi ch'io sia ceca degli occhi della testa così come tu s'è cieco da quelli del core? Io venni a confessarmi di buon mattino e tosto ti riconobbi. Dissiti che innamorata d'un prete ero e di qual se non di te? Dissiti che lo prete giacea ogni notte meco. E quando fu che tu meco non giacessi? Ravvediti dunque, torna l'uom che tu esser solevi e lascia star questo solenne guardar che tu fai perchè qualor a me venisse da porti le corna, ti posso giurar che s'anche avessi cento occhi, non te ne accorgeresti". Così con queste parole lo geloso cattivo fu scornato e dicon che la savia donna insieme a lo suo amante per lungo tempo a lieta vita si diede. La nostra Ellissa favellerà a voi cari uditori di come lo morbo della gelosia attaccar può non solo li mariti, ma anche i padri e li fratelli. V'eran infatti in Messina tre fratelli mercatanti di stoffe che avevan tra loro una sorella assai bella e costumata ancor da maritare di nome Elisabetta. Ella amava segretamente Lorenzo, un giovin bello nella persona e leggiadro molto, il quale i loro affari con perizia guidava. Sarebbe stato proprio un buon partito Lorenzo per la nostra Elisabetta ma i suoi fratelli, ahimè, dello stesso parer non eran, tanto che un giorno, con una scusa, invitaron lo giovane ad andar con lor in campagna a goder del bel sol di primavera e dopo aver corso fino a diventar paonazzi, lo condussero in un luogo appartato e preso un coltello affilato, con un sol fendente l'uccisero. Non tornando Lorenzo, Elisabetta iniziò a domandar con insistenza, tra le lagrime, ad un dei fratelli dove ei fosse. Molte notti la sventurata in pianto trascorse e, durante una di queste Lorenzo l'apparve nel sonno pallido, tutto rabbuffato e co' panni tutti stracciati e fracidi e dissele che da lei no'l sarebbe più tornato per ciò che i suoi fratelli l'uccisero. E rivelatole il luogo dove sotterrato l'aveano disparve. Lo giorno seguente, la povera giovine chiese a li fratelli d'andar al luogo rivelato dalla celeste apparizion e riconosciuto il suo infelice amato in niuna cosa ancora guasto né corrotto, non potendo dargli degna sepoltura, spiccò da lo busto la testa e dopo averla bagnata con le lagrime sue e baciata da ogni parte la mise in un bel vaso coperta da un drappo rosso. Poi messavi su la terra piantò parecchi piedi di basilico salernitano ch'ella ogni dì bagnava di suo copioso pianto. E lo basilico divenne così bello ch' io vi testimonio che ancor l'uso per acconciar le mie gustosissime tagliatelle. E lo carrozzon si tinge d’oro mentre Pampinea rimembra la storia dell'infelice amor di Guiscardo e Ghismonda figlia del Principe di Salerno, il quale così teneramente l'amava che, non volendo ch'ella da sé partisse, non si risolveva a farle prender marito. La giovine, dal canto suo, volendo gustar li doni d'amor pensò che l'unica soluzion fosse quella di sceglier per sé occultamente un amante. E vide, tra gli altri, un giovane valletto del padre il cui nome era Guiscardo assai umile per vertù e di costumi nobile. Subito il cor suo di gioia s'accese, tanto che a lui una lettera scrisse dicendogli ch'ei potea da lei recarsi per una grotta sita allato del palagio coperta di pruni ed erbe, e dì lì, salendo una scala, e oltrepassando l'uscio in su la sua cima, giunger finalmente all'intima sua dimora. Il giovane ivi giunse e i due con grandissimo piacer per gran parte della giornata insieme dimorarono. Or avvenne che Tancredi era usato talvolta venirsene nella camera della sua figliola per ragionar alquanto e poi pentirsi. Per isventura, dunque s'accorse di ciò che la sua figliola e il paggio facevano e, lo giorno seguente, presolo in disparte lo rimproverò severamente per l'oltraggio da lui compiuto e ne le secrete prigioni 'l rinchiuse. Poscia alla figlia disse: “Ghismonda mia, parendomi conoscere la tua virtù e la tua onestà, pensato mai avrei che tu eleggessi come tuo amante un giovane di vilissima condizion come Guiscardo ed or che i miei occhi han veduto ciò che han veduto, davver non so qual decision pigliare. Da una parte infatti mi trae l'amore ch'io ti ho sempre portato il qual vuol ch'io ti perdoni, dall'altra lo giustissimo sdegno per la tua gran follia mi chiede ch' or io contro di te m'incrudelisca”. E Ghismonda saviamente rispose: “Padre mio, Amor mi guidò verso Guiscardo, ed io lo scelsi non per accidente, come molte fanno, ma per deliberato consenso. Talmente accecato dalla gelosia tu sei da non veder che non il mio peccato ma quello della fortuna riprendi, la quale assai sovente li non degni a l'alto leva abbasso lasciando i degnissimi. Perciò or io ti domando con grande umiltà di far a me ciò che a Guiscardo hai fatto”. Conobbe così il Principe, la grandezza d'animo della della sua figliola, ma, non credendo del tutto nell'intenzion de le sue parole, comandò a due suoi servitori d'uccider il giovane e di portar alla fanciulla il cuore suo dentro una bella coppa d'oro. Ghismonda non smossa dal suo fiero proponimento, velenose erbe e mortifere radici in acqua stillò e quella pozione nella coppa versò. Poi, dopo aver contemplato il cor di Guiscardo, con gli occhi pieni di lacrime disse: “O mio amato cuore ogni mio ufficio verso di te è compiuto ne più altro mi resta se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia”. Così doloroso fine ebbe l'amor di Guiscardo e Ghismonda, li quali Tancredi, dopo aver molto pianto e tardi pentuto della sua crudeltà con general dolore dei salernitani onorevolmente entrambi nel medesimo sepolcro li fè seppellire. “Or sappiate, messere e messeri, ch'il vostro Dioneo molto ha visto del mondo e ben ha compreso che, dopo la gelosia, lo secondo vizio che può tentar lo cor de l'homo d'oggi è l'amorosa passion. Ben lo sa Masetto di Lamporecchio che facendo vista d'esser mutolo, divenne giardinier d'un convento assai famoso per santità con otto donne tutte giovani e una badessa. Avvenne dunque un giorno ch' una di esse volle provar con lui quella dolcezza che si prova quando la femina usa con l'uomo e, dopo di lei, tutte vollero provar la stessa gioia, compresa la badessa, la quale un dì trovò 'l giardinier affaticato assai per lo troppo cavalcar della notte e, sola vedendosi, in quello medesimo appetito cadde che cadute erano le sue monachelle. Così, destato Masetto, seco nella sua camera el menò e, per parecchi giorni, provò e riprovò quel piacer lo quale essa prima all'altre solea biasimare. Ecco dunque che l'ortolano, come per opera della divina grazia, iniziò a favellar e raccontò alla Madre di com'egli avesse così servito anche le altre monache, sicchè, affinchè il monasterio non fosse da Masetto vituperato, le candide sorelle gli diedero l'ufficio di fattore di campagna ed egli, divenuto padre di molte monachine, presso che vecchio, con una scure in collo, se ne tornò a casa sua. L'ora è ormai tarda, cari uditori e, prima che la nostra cara Elissa ci inviti ad assaggiar le sue tagliatelle occorre che Filostrato a voi narri di come l'uom si diverta a farsi beffe de lo prossimo suo come accadde al povero Calandrino il qual ereditò, da una zia vecchia e zitellosa, dugento lire in piccioli contanti. La buona novella giunse tosto all'orecchio de suoi due amici, Bruno e Buffalmacco e del loro compar Simone, i quali altro non aspettavan che l'occasion di tendergli una burla per divenir proprietari de lo suo denaro. Ed ecco che un giorno quelle volpi, incontrarono per l'istrada l'amico ereditiero e vedendolo rosso in volto 'l dissero ch'era così strano da sembrar malato. Davvero poco ci miser dunque i tre imbroglioni a convincer lo malcapitato a convocar presso la dimora sua lo medico più famoso di tutta Fiorenza, il quale, dopo aver con attenzion il polso ascoltato e con perizia la scatula cerebralis esaminato, dissegli ch'egli niuna altra malattia avea, se non quella d'esser pregno. Pallido come un morto, Calandrin domandò se un modo vi fosse per guarir senza partorir. Il medico allora gli parlò d'una certa bevanda nomata chiarea efficace sì, ma dispendiosa alquanto. Ma Calandrin a spese non badò e due paia di bei capponi grossi per far la bevanda subito a comprar mandò. Or avvenne che, mentre la cura subitamente effetto facea, lo medico e gli amici suoi d'ogni cosa, compreso il denaro, alla faccia sua goder potean quantunque, sua moglie, Tessa avvedendosene, molto col marito ne brontolasse. Non potea alfin mancar la vicenda d'un certo Ricciardo palafrenier di Pistoia che donò al duca Francesco de Vergellesi il suo più bel destriero a condizion di poter, in sua presenza, favellar con la donna sua. Lo duca, di nulla ricco, se non della sua avarizia, accettò volentieri lo scambio, ma disse alla moglie ch'andando a udir le parole di Ricciardo, ben si guardasse dal rispondere a lui né poco né molto. La donna al marito prestamente ubbidì e così quando Ricciardo iniziò lo suo discorso lodando la condotta e la gran virtù della signora, alcun motto dalle sue labbra uscì. Lo giovane, veggendo che alle sue parole niuna risposta seguiva, molto si maravigliò e ad accorger dell'arte usata dal marito s'inominciò. Fu allor che 'l suo ingegno aguzzò e al posto della donna rispose confermando l'amor ch'ella per lui portava e dicendo che non appena il marito partito fosse per la città di Milano, acciochè suo podestà dovea divenire, essi dato avrebbero al loro amor pieno e felice compimento. Ed infatti messer Francesco, di soddisfazion ripieno, col suo cavallo a Milano se n'ando e per sei lunghi mesi ivi restò mentre la donna con lo suo amato non sol per quel tempo ma per molto molto e molto altro ancora un fulgor nuovo alla sua giovinezza diede. Con quest'ultima favoletta questo spettacolo noi concludiamo e a praticare Amor senza paura alcuna vi invitiamo, poich'esso è l'unica speme che resta in questi nostri giorni di mestizia intrisi. E se queste novelle, magistralmente narrate, con favelle gesti e vestimenti, da questi cinque istrioni de la Compagnia Nuovo Teatro, sì talentuosi da esser capaci di passar facilmente da narrator a personaggio e viceversa, vi sono state di conforto e d'abbraccio, orsù dunque currite currite presto a legger le altre novantatre del nostro amico messer Boccaccio!
E.T