Al secondo piano della Torre, nell’enorme biblioteca, troneggia un elegante baule intarsiato chiuso da un lucchetto d’argento. È il dono recato dal Saldino a Babele per sancir la pace definitiva dopo una guerra durata troppo tempo Al suo interno ricche sete e preziosi gioielli per vestir all’orientale ogni giovane del luogo. Fuori dalla finestra, uno spicchio di luna sembra vegliare sul riposo di quel viandante dall’animo generoso, diretto in Palestina, giunto in città per trascorrere la notte. Uomini donne e bambini stanno seduti in silenzio attorno al magico forziere per ascoltar gli affascinanti racconti dei suoi viaggi divenuti vere e proprie favole musicali sulle note di Maurice Ravel. Sembra proprio giungere ai loro orecchi il flebile fruscio delle foglie boschive calpestate dal piccolo Pollicino che cerca invano la strada di casa, oppure il trillo di mille campanelli d’argento che li guida nel tortuoso cammino tra santuari e templi giapponesi per giungere alla pagodine dell’imperatrice attorniata dalle fedeli odalische, o, ancora, nelle grandi sale del palazzo de La Bella e la Bestia, dove l’amore incondizionato d’una fanciulla mostra, ad un uomo trasfigurato dal male, quel bene ch’egli non era più capace di vedere. Stando in piedi dietro la porta, non avevo perso un dettaglio di quelle incredibili narrazioni. Così prendo il coraggio a due mani e decido di entrare per gustare pienamente quell’incontenibile fiume d’avventura. Ed ecco che le Variazioni su un tema slovacco per violoncello e pianoforte H 378 interpretate da Chiara Opalio (pianoforte) e Stefano Cerrato (violoncello) mi ricordano il vecchio Johannes, dal quale, un anno fa, avevo ascoltato quell’antica leggenda d’Ungheria, depositaria d’un’Innocenza ormai perduta. Ma il tempo del mito è ormai finito ed ora, il nostro compagno di viaggio ci conduce in cima alla torre in una piccola soffitta piena di polvere. Una nuvola di fumo ci avvolge da capo a piedi offuscando la vista e impedendoci di respirare. George Gershwin è seduto al pianoforte con l’immancabile sigaro toscano chiuso tra le labbra. Colto da un’improvvisa ispirazione, sta finendo di comporre la sua Rhapsody in blue. Tutte le sue speranze sono riposte in quel rapidissimo incalzar di ritmi e canzoni che si susseguono sui tasti. E, a secoli di distanza, il giovane pianista Alessandro Taverna, sembra essere una cosa sola con quel compositore figlio d’ebrei, che nel 1928, all’età di quasi trent’anni, decide di emigrare da New York a Parigi, in cerca di fortuna, portando con sé soltanto una valigia piena di sogni e un cuore animato dalla medesima inquietudine di chi è alla ricerca di una propria identità e un proprio posto nel mondo. Non poteva certo immaginare che, di lì a poco, sarebbe divenuto il celeberrimo Americano a Parigi nonché l’emblema di quel crogiuolo di linguaggi musicali universalmente noto come jazz. È una forza prorompente quella generata da quel coloratissimo caleidoscopio sonoro, un’energia potentissima che trova dimora nel delicato tocco di Claude Debussy, ancora profumato di classicità, per poi propagarsi come un virus tra i colori delle piantagioni di Plazuela con Souvenir de Puerto Rico, ed infine esplodere nel lacerante grido di libertà di Erwin Schulhoff e nella contagiosa allegria di quel “tempo ridotto a brandelli” che porta il nome di ragtime.
E.T.