Davvero immensa è la reggia di Mustafà. Pare il palazzo delle “Mille e una notte”. D’un color pastello son le pareti del suo serraglio decorate con arazzi d’ogni foggia e misura. Con la voce rotta dal pianto Elvira, sua moglie, si confida con Zulma, la sua dama di compagnia. Ormai non ha più alcun dubbio. Ha perduto l’amore del suo sposo. Solo la saggezza d’una donna ora può curare le sue ferite d’amore, e lei, Zulma, lo fa con la stessa discreta pazienza di chi ha ben compreso la fatica d’amare. “Serenate il mesto ciglio, mia signora”- le dice- “Qua le femmine son nate, solamente per soffrir”. Ed ecco che in quel momento, fa il suo ingresso Mustafà, tutto abbigliato di sontuoso broccato. Senza più lacrime, la sposa abbandonata a lui s’avvicina finendo sulle sue ginocchia quasi come una bambina. Lui, per tutta risposta, la liquida con un inciso che non abbisogna d’alcun commento: “Cara, m’hai rotto il timpano, ti parlo schietto e tondo, non vo’ più smorfie. Di te non so che far”. S’è veramente stancato di quella donna il Bey d’Algeri, ma sa bene che scacciarla è male e tenerla è ancor peggio. Perciò già ha trovato una soluzione che fa proprio al caso suo: Innanzi tutto stabilisce che la sventurata Elvira pigli per marito Lindoro, il suo schiavo italiano poi, in tutta fretta convoca Haly, il capo dei corsari e gli dà un ordine alquanto bizzarro: Trovar per lui una bella italica, una di quelle signorine che dan martello a tanti cicisbei. Haly temporeggia ma la sua incertezza è stroncata sul nascere da una battuta che non lascia via d’uscita: “Se fra sei giorni non me la trovi io ti faccio impalar”. Nulla possono dunque le due donne contro un sovrano ch’ altra legge non ha che il suo capriccio. Avanza stanco sul proscenio il giovane Lindoro oppresso dalla catena d’un esilio troppo lungo per essere sopportato ancora. Sogna la sua terra quel bel ragazzo dagli occhi scuri ma, soprattutto, sogna la sua bella. Egli ben sa infatti che star lontan da quella è il più crudel tormento che possa provare un cor. Immerso nei suoi pensieri non s’aspetta certo la sorpresa che ha in serbo per lui il signor Mustafà il quale, tutt’a un tratto, gli si para davanti in tutta la sua possenza: “Senti, italiano, vo’ darti moglie” “A me? ... Che sento…? Oh Dio! Ma come? In questo stato …Oh povero amor mio che imbroglio è questo?” “A ciò non dei pensar. Vieni e vedrai. Schietta, buona, son due stelle i suoi occhi, nere son le sue chiome, bello il suo volto e rosee le sue guance. Caro amico non c’è scampo se la vedi hai da cascar”. I corsari, intanto hanno catturato con successo il loro bottino: è Isabella, giunta in terra d’Africa con Taddeo, (segretamente di lei innamorato) a cercar il suo Lindoro. È senza dubbio incantevole quella ragazza d’Italia con i boccoli d’oro che le scendono fino alle spalle, il cappello di raso in testa, lo scialle ricamato e l’ombrellino rosso che le dona quell’immancabile tocco di classe. La fanciulla si guarda intorno stupita e disorientata. Sembra proprio un uccellino in gabbia tra quei predoni del mare che la circondano da ogni parte. Da chi potrà mai sperar consiglio? Chi conforto le darà? Ma subito riprende il suo vigore e le parole da lei pronunciate descrivono molto chiaramente il suo temperamento. “Qua ci vuol disinvoltura,/non più smanie né paura: di coraggio è tempo adesso/ or chi sono si vedrà./ Già so per pratica qual sia l’effetto/ d’un sguardo languido/ d’un sospiretto/ so a domar gli uomini come si fa/ Sian dolci o ruvidi/ sian flemma o foco/son tutti simili/ a presso a poco… /Tutti la chiedono/tutti la bramano/ Di vaga femmina/ Felicità/. La bella italiana sa d’ esser la prescelta di Mustafà ma non si vuole per questo rattristar. E così aguzza l’ingegno ed escogita un piano degno dei più abili strateghi: Innanzi tutto convince Taddeo, che fino a quel momento non aveva staccato un attimo gli occhi da lei, a finger d’esser suo zio, per non destar sospetti poi, introdotta a palazzo, al cospetto di Mustafà, lo ammalia con un solo sguardo. Quanto è grande, però, il suo sconforto quando, in quella stessa stanza, incontra il suo amato mentre sta per sposare Elvira! Ma, proprio quando ogni speranza sembra perduta, la sua astuzia la soccorre ancora una volta ed ella si pone di fronte al sovrano d’Algeri con la determinazione che è propria di un uomo: “Dite, chi è quella femmina? Fu sino ad or mia moglie”. “Ed or?” “Il nostro vincolo cara, per te si scioglie. Questo mio schiavo si dee con lei sposar”. “Col discacciar la moglie da me sperate amore? Questi costumi barbari io vi farò cangiar. Resti con voi la sposa e Lindoro sia mio schiavo”. “Ma così non si può far!” “Andate dunque al diavolo voi non sapete amar”. Mustafà allora, tenta di giocare la sua ultima carta: invita Isabella a prendere il caffè con lui per dichiararle finalmente il suo amore e, per non essere disturbato dall’ingenuo Taddeo nel momento di massima intimità lo nomina Kaimakan, luogotenente protettor dei Mussulman. L’Italiana, dal canto suo, accetta di buon grado l’invito e, con l’aiuto d’Elvira, s’abbiglia con pizzi vezzi ed ogni splendor come solo una dama d’Oriente si sa combinar. Al sol vederla, il cuore di Mustafà s’accende d’amore, ma, con sommo disappunto, egli scopre che ad accompagnarla c’è anche la sua sposa. Ci pensa allor Lindoro, a fugar ogni dubbio dalla confusa mente del Bey d’Algeri confermandogli che la bella Isabella spasima d’amor per lui e che, tra canti e suoni al tremolar d’amorose faci, lo vuol far diventar suo “Pappataci”. Stupito e incuriosito il Bey chiede delucidazioni sul significato di quel curioso titolo che in Italia vien concesso a color che mai non sanno disgustarsi del bel sesso. È proprio una bella vita quella del Pappataci spesa tra lauti conviti ed interminabili dormite. Eccolo dunque Mustafà con una ridicola parrucca ed un bavaglino seduto ad una tavola imbandita in mezzo al coro dei Pappataci troppo intento ad ascoltare e ripetere il giuramento letto da Taddeo per scorgere Lindoro e Isabella che si scambiano indisturbati frasi amorose. “Giuro di veder e non veder di sentir e non sentir per mangiar e poi goder. Di lasciar far o dir. Io qui giuro e qui scongiuro Pappataci Mustafà. Giuro inoltre all’occasion di portar torcia e lampion. E se manco al giuramento più non abbia un pel sul mento”. “Lascia pur che gli altri facciano- gli intimano i presenti- “Tu qui mangia, bevi e taci. Questo è il rito primo e massimo della nostra società!” Solo dopo aver concluso la proclamazione il Bey s’accorge d’esser stato ingannato, ma purtroppo ha ormai giurato e più nulla ora può far. Fugge dunque l’Italiana con Lindoro e il buon Taddeo e allo sciocco Mustafà altro da far non resta che perdono alla sua sposa domandar. Mercoledì 21 luglio alle ore 21.00 nella piazza cittadina di Sacile, in occasione della nona edizione dell’iniziativa “Opera Lirica in piazza” la Compagnia “Il carro di Tespi” accompagnata dall’Orchestra e dal Coro della Società Filarmonia di Udine, diretti dal M° Alfredo Barchi, presenta: L’Italiana in Algeri, dramma giocoso in due atti di Gioachino Rossini su libretto di Angelo Anelli. Un opera scritta nel 1813 che racconta un Oriente immaginario ed esotico, nella quale il compositore pesarese già rivela le sue doti di menestrello dell’armonia e della parola anticipando di tre anni i suoni ed i colori di Siviglia e del suo celeberrimo Barbiere.
Elena Toffoletto