Dopo cinque anni di assenza, Antonio Magnano torna nella sua Catania. È stato a Roma, nei palazzi del potere, tra i funzionari incravattati e la gente che conta ammaliando tutte le donne dell’alta società romana. Sembra che perfino Edda Ciano Mussolini, che i catanesi chiamano “la contessa”, non abbia saputo resistere al suo fascino. La notizia del suo ritorno si sparge in fretta e le donne del paese, come in una lunga ed interminabile processione, bussano alla sua porta. Lodano senza fine la sua incantevole bellezza e ognuna di loro darebbe qualsiasi cosa per poter camminare sulla sua faccia di zucchero, perdersi nel suo sguardo e baciare le sue carnose labbra come ninfe ai piedi del divino Zeus. Anche il padre Pietro, dal canto suo, non manca di elogiare le sue doti virili tanto che, senza por tempo di mezzo, cerca subito di combinar le sue nozze con Barbara Puglisi, la giovane, bella, e soprattutto ricca, figlia del notaio della città, uomo cinico e senza scrupoli. Il loro matrimonio sembra felice, ma un giorno il notaio in persona irrompe in casa Magnano. Ha appena saputo dalla figlia che, dopo tre anni di matrimonio, ella è ancora vergine, intatta ed immacolata così come è uscita dalla sua casa e questo non è assolutamente ammissibile per un uomo d’onore come lui. Perciò, per tutelare i suoi interessi e quelli della ragazza, ha deciso di chiedere l’annullamento del matrimonio per darla in sposa al duca di Bronte, ricco e rispettabile proprietario terriero. Le sue parole crollano addosso al padre di Antonio, il quale, ignaro di tutto, lo accoglie ancora in vestaglia e pieno di sonno. In casa Magnano cala un silenzio profondo ed oscuro, segno tangibile dell’inizio di un dramma senza soluzione. Ma il giorno seguente, Rosaria, madre di Antonio, decide di affrontare una volta per tutte la donna che, a suo dire, è stata tradita, umiliata e disprezzata da suo figlio. Le due si sfidano come pugili su un ring e, alla fine dell’incontro, è proprio Barbara, ferita nella sua fierezza e nel suo orgoglio, a sferrare il colpo decisivo. Fissa Rosaria con i suoi occhi di ghiaccio e le svela ciò che non avrebbe mai voluto sentire: il suo bell’Antonio, colui che per molto tempo aveva fatto cadere ai suoi piedi tutte le femmine di Catania, è sessualmente impotente. Ormai quella tremenda verità è sulla bocca di tutti e, al giovane Antonio, amareggiato e distrutto dalla solitudine, non resta che confidarsi con lo zio Ermenegildo. Tra le lacrime gli confessa che tutto era iniziato molto tempo prima quando aveva conosciuto una donna tedesca dal corpo perfetto e i modi gentili di cui si era perdutamente innamorato. Al momento dell’atto sessuale, però, ciò che per gli altri era fonte di immenso piacere per lui si trasformava in un incubo. Tutto il suo corpo tremava di freddo e un forte senso nausea gli attanagliava lo stomaco. Da allora, per lui ha inizio una soffocante catena di menzogne e recriminazioni per sfuggire al dito accusatore della gente e mantenere alta la reputazione della famiglia. Mentre il festoso suono delle campane annuncia le nuove nozze di Barbara, Pietro Magnano, ancora disperato ed incredulo, esce di casa e cade morto sotto i bombardamenti. Lo ritrovano dopo cinque giorni sotto un cumulo di macerie. Antonio, invece, con il viso rivolto alla finestra del suo palazzo, invoca, ancora oggi, senza darsi pace, il nome della sua amata. Il Bell’Antonio, capolavoro letterario di Vitaliano Brancati, pubblicato nel 1949, è un meraviglioso affresco dell’Italia fascista che descrive, con spietato realismo, un paese in grande difficoltà, una regione piagata dalla guerra, una famiglia condannata all’immobilismo storico - sociale e un moderno Don Giovanni che, suo malgrado, diviene vittima di un sistema complesso e molto più grande di lui. È una Sicilia sorda, cieca, gretta, chiusa ed ottusa, incapace di concepire l’amore oltre il puro atto sessuale, quella che emerge dalle straordinarie ed attualissime pagine brancatiane. Una Sicilia dove le ore non passano mai e, quando passano, non ripagano nemmeno della fatica che si fa per cercare di gettarle in avanti. Un mondo fatto di passioni viscerali, di rispetto e dispetto e di rancori imperdonabili. Una terra arsa dal sole dove il caldo si appiccica ai vestiti e la morale è spesso sostituita da una fede ipocrita ed opportunista che tutto aggiusta e scusa. Sessant’anni dopo la morte dello scrittore, in questo adattamento teatrale, fedelissimo al testo originale, curato da Antonia Brancati (la figlia dell’autore) e Simona Celi, la regia di Giancarlo Sepe spoglia il testo da facili allestimenti borghesi e lo trasporta in un non luogo statico e senza tempo, dove basta una colonna alta e nera, simile a quella traiana, per definire i diversi ambienti dello spazio scenico e dove i cambi di scena sono dati soltanto da una tenda girevole e dai mutamenti di posizione dei protagonisti sul palcoscenico. Una prosa raffinata, tagliente ed ironica dal ritmo lento ma anche ricco di pathos nella quale gli aggettivi giocano con l’esistenza umana e gli attori, perfettamente calati nei loro ruoli, interagiscono sulla scena come novelli eroi tragici travolti da un crudele ed ineluttabile destino.
E. T.