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Nascosto dove c’è più luce
20-05-2013: Gioiose, spudorate, rabbiose sofferte opinioni di un comico. Scritto e interpretato da Gioele Dix

Attenzione, signora!!! Quello era il mio parcheggio!!! Noooo!!! La musica da discoteca noooo!!! ... Sapete che la odio!!! ... Oddio adesso ci mancava pure la famigliola felice stile “Mulino Bianco” con labrador al seguito… Ma questo è un vero inferno!!! ... Questa sera, dopo una giornata piuttosto movimentata, Gioele Dix si ritrova sul palcoscenico del Russolo in balia di trasognate allucinazioni, e la luna pare accompagnarlo nei suoi vaneggiamenti. Il suo risveglio è alquanto brusco e il paesaggio che lo accoglie davvero irreale.  Una pedana di legno piena di veli e di nuvole sospesa tra terra e cielo. Alle sue spalle un tronco d’albero rinsecchito e una lunga e misteriosa strada. Poi una voce:   “Mi scusi, signore, lei sa dove si trova, vero? “Mah, a dir la verità non lo so proprio, se non me lo spiega lei!?”  “A proposito, lei chi è?” “Sono un angelo custode venuto ad accompagnarla in questa avventura… Dovrebbe sapere che questo è il tempo del bilancio della propria vita ed è una tappa obbligata per quanti vogliono proseguire lungo la via  del Paradiso. È pronto per il suo esame? Bene, allora, cominciamo. “Secondo lei, qual è l’oggetto più importante che un attore deve sempre portare con sé?  Forse una maschera?” “No, la maschera è un oggetto troppo scontato per chi, come me,  ha fatto della scena il suo pane quotidiano.  È  l’emblema della finzione. Credo, invece, che un attore debba saper fingere con verità, perciò un bel paio di occhiali scuri fanno proprio al caso nostro. Sono uno schermo molto efficace tra l’artista che vuole affrontare la platea gremita pur restando nascosto per tutelare la propria intimità”.  Ed è proprio da qui, da un incubo, che il famoso comico milanese inizia a giocare a palla con il mondo, come fanno i bambini, in compagnia di quel bizzarro Caronte vestito di raso come la Primavera di Botticelli e munito di tablet che registra, puntualmente, tutte le sue risposte, poichè, come lui stesso afferma: “Ciò che conta qui sono le parole dette.” Le sue ironiche invettive iniziano da quella volta in cui un negoziante, sfruttando la sua ars oratoria, riesce a vendergli una giacca per lui troppo grande che, a suon di modifiche e aggiustamenti, viene ridotta ad un inutile quadratino di stoffa. E poi c’è il curioso teorema emerso dal colloquio con il rabbino ebraico Manchievich, che, con il cinico umorismo che contraddistingue il popolo d’Israele, dichiara che l’inferno dovrebbe durare dodici anni. Il perché è semplice: bisogna escludere da ogni possibilità di peccato il momento della nascita di una persona, della vecchiaia durante la quale si diventa completamente rincitrulliti, della morte e le ore giornaliere che ciascuno dedica al sonno. Sommando tutte le ore il risultato è molto curioso: lo stesso numero degli apostoli. Il comico di Zelig si confessa con semplicità e naturalezza davanti al suo pubblico il quale accoglie con attenta partecipazione e complice empatia le sue gioiose, spudorate, rabbiose e sofferte opinioni che si dipanano in un gioco teatrale tessuto con lo stile e la sensibilità di un artista sempre combattuto tra due anime differenti ma entrambe assolutamente indispensabili nella sua carriera professionale: quella che lo spinge a mettersi in gioco con un recital che supera e si innalza al di sopra del puro e ormai scontato del cabaret classico, e quella che, al contrario, lo intrappola nella tristezza e nella delusione facendogli credere che l’unica soluzione sia quella di nascondersi o scappare dalla vista degli spettatori. Il teatro si rivela  la forma d’arte più adatta a mettere un luce questo conflitto con quello spirito celeste, di shakespeariana memoria, che  sorride con delicatezza da dietro un paravento, mentre  dal soffitto, come per incanto, scende quell’ombrello che la nonna gli aveva regalato molti anni or sono, in occasione della sua prima tournée teatrale. Il giullare del teatro ripensa con commozione alle sue parole: “Ricordati che io sarò sempre con te, sia nel caso tu riceva applausi, sia nel caso in cui gli spettatori si dimostrino i tuoi nemici più spietati”. Ed è proprio questo il momento giusto, per lui “andando indietro con la mente, e non con la schiena,” di lasciar libero spazio alle sue memorie più intime: i viaggi della sua infanzia,  le gite con i figli al mare, le donne che ha amato e dalle quali è stato abbandonato (senza comprenderne i motivi). Infine l’ultima e più importante domanda: “Di grazia, signor custode, visto che abbiamo chiarito che un’ anima può soggiornare all’inferno solo dodici anni, potrebbe dirmi che cos’è il Paradiso?”  Da  dietro le quinte,  la  soave ma ferma risposta  dell’angelo non si fa attendere: “Sublime e pacifica assenza di domande”. Da un flusso di coscienza degno dell’Ulisse di James Joyce, i pensieri di un istrione divengono un copione di teatro attraverso un’ altalena di soliloqui, arguzie, storielle, ricordi e gag in un’efficacissima interazione tra l’interprete in scena, il suo spirito guida - interpretato dall’esordiente Cecilia dalle Fratte, che dimostra già grande padronanza del movimento sullo spazio scenico - e il pubblico in sala. Non possiamo sapere con certezza quale posto sia destinato agli attori nell’immaginario collettivo e sociale, se l’Inferno, il Paradiso o il Limbo, ma ciò che sappiamo per certo è che ogni comico che si rispetti non deve mai perdere la capacità di ironizzare su se stesso e sugli altri per essere annoverato tra i figli di Isacco, noto personaggio biblico generato dalla risata che cambiò per sempre la storia dell’uomo.

E.T.

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