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Annotazioni
Casa mezzadrile con “albergo”
22-03-2012: Alla scoperta delle radici

Chi scrive questi ricordi d’infanzia è nato nel 1934 in una casetta agricola in pietra a un centinaio di metri dal ghetto di Mathausen. Di prettamente legata alla terra, posizione che la determinava agricola, era una stalletta che poggiava sul muro della camera dei miei genitori. In quella rimasi per circa tre anni con mio fratello Luciano. Il vano esterno ospitava una mucca che talvolta di notte cozzava con le corna contro la mangiatoia, forse perché mio padre che rientrava tardi dal lavoro di cameriere al Caffè Sguerzi si dimenticava di fornire la greppia dell’ultima inforcata di fieno. E sì che fino a 18 anni aveva vissuto in un’ampia casa mezzadrile in borgo San Nicolò, con una grande stalla proporzionata al numero di abitanti del caseggiato che ospitava mediamente dalle 30 alle 35 persone, contando anche i piccoli che, appena terminata la prima o la seconda classe elementare, venivano tenuti a casa perché in qualche fattura c’era bisogno anche delle loro braccia.

La mucca era stata acquistata per motivi alimentari; oltre alla mia famiglia che occupava una stanza da letto , a destra entrando, a lato di una capiente cucina , c’era anche il nucleo di mio zio Giovanni e moglie Maria con tre figli nell’ordine di età: Giovanni, Vittorina e Sergio chiamato (Cicci), in una camera da letto, terza ed ultima stanza dell’economico manufatto. Comprensibile quindi la presenza di questa mucca che esprimeva spesso il suo risentimento per il fieno dimenticato. Era una vacca da latte, abbondante, che doveva bastare per cinque bambini. Cibo pressoché quotidiano, naturalmente con polenta o quando, a ottobre circa, erano mature le zucche coltivate in un minuscolo orto adiacente, allora si cambiava: sempre latte naturalmente ma con il contenuto di polpa di zucca, fatta prima bollire convenientemente: “zuffi”.

E’ chiaro che il gruppetto famelico avrebbe sempre preferito “zuffi” ma allora si mangiava “di stagione”; erano ancora tempi in cui gli ortaggi più disparati rispettavano i tempi delle stagioni: cibo a distanza Km 0, mi spiegava Massimo Zanon, albergatore, che aveva completato, il “cursus honorum” scalando la carriera da presidente della sezione commercianti locali, per poi salire a quella di responsabile mandamentale, per approdare poi a quella provinciale. Mi hanno raccontato, ma in forma dubitativa, che quest’ultima funzione gli dava diritto all’utilizzo quotidiano di una bellissima gondola, tutta per lui, con la quale poteva muoversi agevolmente in questa incantevole città, guardando a destra e a sinistra tanti splendidi palazzi, tanto da fargli venire – mi disse una volta – un formidabile torcicollo. Sono un po’ uscito di tema, come accadeva al tempo della scuola media, con il foglio protocollo che portava in rosso la scritta del professore d’italiano: “Sei andato fuori tema”. Mi spiegava Zanon che cibo e vini a km O, erano genuini, sicuri ;una volta che i cibi che si mangiavano erano comunque provenienti da distanze minime, maturati sempre nella stessa regione quando poi non provenivano tutti dall’orto attiguo all’ abitazione. Oggi invece mangiamo d’inverno la frutta esotica che arriva dall’Africa o in febbraio le ciliegie che provengono… chissà da dove, comunque da molto lontano. A sei anni chiesi a mio padre Attilio che ammiravo nella sua impeccabile divisa di cameriere,e talvolta era chiamato (ma che si presentasse in “frac”) a servire in qualche cena di siors in via Martiri (allora con altro nome). Avevo compiuto sei anni, prima che partisse militare per Torino addetto a un gruppo dell’antiaerea. E prima di partire, come mi aveva promesso, mi portò a visitare la casa mezzadrile con “albergo” dove aveva abitato con il fratello Vittorio e la sorella Maria. Rimasi sbalordito dalla grandezza della casa; la raggiungemmo dopo aver percorso un breve tragitto della strada “bassa” per San Nicolò e subito dopo aver attraversato i binari della Venezia-Trieste con alla destra il ponte di ferro, giravamo a sinistra imboccando una strada sterrata che ci condusse quindi alla meta. Dentro, il cortile affollato da stormi di animali: le galline starnazzanti in maggioranza, ma poi oche (quelle per gli stivali), “dindiati” e altri. Era un tardo pomeriggio d’estate; mio padre approfittò per portarmi nella stanza a pianterreno dove si mangiava. Un tavolo non troppo ampio perché ci mangiavano soltanto gli uomini, le donne in piedi più lontane, con il piatto in mano. Accanto al focolare, seduta su una sedia, disadorno trono campagnolo, stava immota la patriarca, quasi una mummia, che riscaldava alle braci del focolare le sue ossa. “Ciao Tilio, sussurrò, susto con tu fio Ugo?” “Ti saluto perché è tardi e dobbiamo andare a casa,rispose mio padre” . Invece appena usciti dalla cucina volle mostrarmi le stanze rustiche del primo pino.”Questo è il dormitorio”, esclamò. Le stanze bollivano. “ E d’inverno, mi disse, si gela dal freddo e non c’è neppure la luce elettrica; ho deciso di andarmene” A 20anni, quando se n’era già andato dalla casa albergo con fratello e sorella, sostarono per qualche tempo a Settimo per condurre un’osteria, ma quando la sorella si sposò con un rustico contadino del posto, dopo ognuno andò per la sua strada: i due fratelli tornarono a Portogruaro. Vittorio cameriere al “Pilsen”, Attilio da Sguerzi. Erano saliti sulla scala sociale. “E adesso, prima di andare via, mi disse, voglio farti vedere una cosa: mi portò dentro la stalla muggente al rumore della porta che si apriva e dopo aver percorso un lungo corridoio si fermò davanti a una porticina. Dentro uno sgangherato lettuccio di ferro con un paio di vecchie coperte, una bottiglia d’acqua con un bicchiere, un moccolo di candela. “Questo è l’albergo” disse a un fanciullo sorpreso:il sottoscritto. “Da noi – continuò – e in tante altre case di campagna, abbiamo l’abitudine di mettere a disposizione un ricovero, simile a questo, per qualche barbone o qualche povero. Ve ne sono molti in giro. Arrivano sull’imbrunire e chiedono di essere ospitati per un notte. Usufruiscono di un loro “diritto”, sancito ormai da una tradizionale ospitalità accettata da tutti. Sanno che questo è il loro vano a disposizione. Offriamo una ministra con un po’ di polenta, un bicchiere di vino. Non deve fumare, per il fieno che lo circonda. E la mattina riparte. Questa è la regola, non scritta ma rispettata, della campagna. I poveri, e sono tanti, hanno il diritto di sostare per una notte, il mattino presto si alzano, si lavano alla fontana con una scheggia di sapone. Alla fine, ringraziano e se ne vanno. Se nel frattempo non sono morti torneranno”. “Siamo tutti poveri e dobbiamo aiutarci”. Ce ne andammo e io continuai a volgermi indietro per vedere il bugigattolo, piccolo, ma accogliente specie nella stagione freddo. Accanto al lettuccio un moccolo di candela da accendere con molta prudenza per il molto fieno intorno. “E l’albergo” – spiegò ridendo mio padre – “è quello che hai visto, ma per i poveri somiglia a un albergo a quattro stelle”. “Da molto tempo i poveri che ci conoscono, dicono a qualche tardivo mendicante serale: “Vai all’ “albergo “Padovese?”

Un giorno incontrai un cugino di mio padre: un baule alto quasi due metri. Aveva il viso triste: Gli chiesi perché”. “ I miei figli sono stufi di fare i mezzadri: sior sì, sior nò, portargli ogni secondo giorno le primizie dell’orto, del cortile e della cantina e noi la solita polenta magari con un renga o un pezzo del peggior baccalà che vendono in “casoin”. “Ce ne andiamo in Piemonte – mi hanno detto – ci sono fabbriche e diventeremo operai”. Oggi i portogruaresi doc, quelli nati sul posto raggiungeranno a malapena una ventina di migliaia di abitanti; il resto migranti.
La migrazione diventò progressivamente un esodo e la città bella, artistica e industriosa diventò un “villaggio”, un tempo fantastico ora con qualche tratto ancora interessane, ma a grave rischio con l’applicazione del piano casa, un probabile cavallo di Troia, nel centro storico. Prima di accomiatarsi il vecchio parente disse che i suoi figli avevano ragione, ma che “A lui , ormai vecchio, dispiaceva immensamente lasciare la terra dove era nato, lavorato sofferto e amato: non sentirò più la sera, la campana di una chiesa fra i campi, che ci dava l’addio della giornata terminata”. Mi dette la mano, un affettuoso buffetto sulla guancia e si allontanò senza voltarsi.
Non lo vidi più.

Ugo Padovese


(immagini di Fotoreporter - Portogruaro)

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