Quella dell’Autunno in questi ultimi anni di cambiamenti climatici e di comportamenti anomali delle stagioni, è l’unica che siamo perfettamente in grado di notare.
Diversamente andavano le cose negli anni Cinquanta dello scorso secolo quando il “segnale”, che significava in termini inequivocabili il periodo dell’anno che stavo attraversando, era costituito specialmente dai profumi o dagli slanci del vento che percepivo alla fine dei portici che dal centro storico portavano fino a via Pellico. Uscendo dall’ultimo tratto di porticato e girando a destra per via Pellico per raggiungere il mio borgo, quello delle “casette nove”, in primavera i delicati profumi e i tenui odori che arrivavano fin lì dalla vicina campagna che si stendeva all’ “infinito” dopo le case popolari, mi accarezzavano, accompagnati da un tepore spontaneo leggero, giovanile, tenue. Una carezza prolungata.
Non c’erano dubbi. Tanto più che nell’uscire dalla copertura dei portici pensavo quasi di rabbrividire pensando all’inverno che allora era solitamente feroce. Freddo nelle case riscaldate in maniera patetica, gelo e vento infido in faccia per percorrere via Pellico fino a casa. Non c’erano dubbi, quella era la stagione invernale. E la neve non costituiva solo un optional gradito dai bambini, ma un appuntamento talmente sicuro che anche l’Amministrazione comunale più sparagnina era costretta a tenere nel magazzino una considerevole riserva di sale per rendere meno pericolosi certi tratti di strade.
La neve non era quella del presepe, che si immaginava soffice, amica, quasi un contorno fatato e accompagnato dalle nenie natalizie, ma sferzante, ostile, punture agli occhi e con una facilità a raggiungere spesso nelle strade, in tempi rapidissimi, altezze sconsiderate in quegli angoli in cui il vento più facilmente poteva accatastarla. Ma anche per la strada sterrata che portava dalle “casette nove” di Borgo San Francesco, fino a via Pellico, la neve costituiva un ostacolo formidabile. Almeno un paio di volte, d’inverno, si doveva lavorare di pala per aprire un varco, un sentiero vero e proprio per raggiungere un suolo più calpestabile all’altezza del già vecchio e mitico cinema “Silvio Pellico”, che costituiva la grande attrazione per noi bambini, solo nei pomeriggi domenicali.
Certe sere la stufa, cucina economica si chiamava, capace di fare tutto, le minestre, le bistecche – rare - le luganeghe nel “tecìn”, la polenta, il pane e i biscotti nel forno, fornendo acqua calda da un apposito contenitore inglobato nella “macchina” pluriuso, mancava del combustibile, un grave inconveniente perché costituiva l’unica fonte di riscaldamento della casa.
Io mi offrivo coraggiosamente di uscire per procurarmi parte dei marroni o castagne matte che avevamo raccolte in estate, messe al riparo in uno stanzino esterno. Quelle col riccio erano il carburante più clamoroso e immediato; altre, che erano state dimenticate nel necessario taglio della buccia perché non scoppiassero nella stufa, a volte lo facevano con una specie di tuono casalingo che ci faceva trasalire e ridere insieme. Fuori era il deserto siberiano: neve che sbatteva in faccia, un vento che bruciava le orecchie e qualche lamiera impazzita che sbatteva come una campana rotta in qualche sgabuzzino esterno all’abitazione. Dentro ero accolto come un “eroe” e avevo diritto al posto più vicino alla stufa perché mi riprendessi dal freddo.
Inverno stagione inconfondibile.
Della dolce primavera abbiamo già parlato e già in giugno le prime scalmane dell’estate ci attendevano puntuali alla fine dei portici. Dopo pranzo me ne andavo fuori subito sotto il solleone che bruciava; andavo per i campi vicini, percorrendo stradine e sentieri, a volte fermandomi sotto qualche pianta, a ristorarmi della sua ombra protettrice. Nelle ampie aie contadine la calura si presentava con un forte odore di fieno che sboccava dai ricoveri sopra le stalle, assimilato con l’esalazione asprigna del concime, il prodotto della Perfosfati del tempo; era un indefinibile “aroma” costituito da un mix di sentori, nel silenzio profondo del dopopranzo che i contadini dedicavano al tradizionale riposo.
Ma altri segnali inequivocabili e inconfondibili dell’estate erano il prorompente gracidio notturno delle rane da un vicino fossato, dall’apparizione serale delle lucciole. Dove sono migrate? Forse arrabbiate perché noi fanciulli, “feroci” senza malizia, davamo loro la caccia rinserrandole poi nel pugno che rimaneva striato e odoroso, come quando proteggevamo le piantine dei pomodori nell’orto nelle ore più calde?
Ma il segno più concreto, godibile come un dolce surrogato di caramelle, erano le piante dei gelsi, con le more bianche e nere. Ne mangiavamo tante che alla sera quasi quasi avremmo saltato, la classica godibile “luganega” affogata in un mare di caldo sugo e di polentina bianca fumante.
Le foglie dei gelsi erano il cibo dei bachi da seta, la piccola e faticosa industria contadina, l’unica che permetteva di poter avere qualche soldo in tasca, per un vestito, un giocattolo alla sagra della Madonna del Rosaio in borgo San Giovanni e a volte per qualche indispensabile medicina.
I gelsi erano dappertutto ci fosse un piccolo spazio non coltivabile; lungo il crinale dei campi, meglio ancora ai confini di destra e sinistra delle strade campestri, con fronde ricche di foglie che gli ingordi bachi da seta ingoiavano nell’unico tepore della stanza che li accoglieva. Freddo per i mezzadri.
A Portogruaro c’era una filanda, in borgo sant’Agnese operativa fino al secondo dopoguerra, con operaie di Portogruaro, Concordia e del Friuli. Meglio non leggere una narrazione, a volte drammatica, delle condizioni di lavoro delle filandiere. L’ hanno abbattuta assieme a una elegante casa di stile Liberty, abitata di solito dal direttore, senza neanche un segno di ricordo di “reperto archeologico” industriale. Al suo posto una serie di fabbricati, compreso un supermercato, il tutto a ridosso di una Chiesa e di un Battistero trecentesco e di una Villa del Settecento, tanto vicini da “offuscare”, quasi , la necessaria libertà spaziale accanto agli antichi edifici, indispensabile per accorgersi della loro esistenza. Ma dicono che i costruttori italiani sono bravi! E non lo fanno neanche gratis. Anzi. Comunque tutto secondo legge. Si accorgessero almeno che spesso “diminuiscono” cose belle , preziose, che non appartengono solo a pochi presuntuosi forse privi di amore per la cultura contribuendo a sminuire quello che non è nostro ma anche di quelli che verranno dopo di noi.
E siamo arrivati all’autunno, l’unica stagione che diversamente dalle altre sbarazzine che si scambiano tepori e freddure fuori tempo, si ripresenta sempre con la solita veste. Un primo brivido di vento e quindi qualche folata più forte che fa cadere le foglie dagli alberi. Gli alberi sono le “case” delle foglie felici di vivere assieme riscaldate dal sole, folleggianti al venticello che le muove su e giù, come un’altalena che rende contenti i più piccoli. Ma anche per le foglie, come per gli uomini , è destino lasciare, a ridosso dell’inverno, le fronde e i rami dell’albero-casa che ha dato loro la vita, le ha allevate con i succhi del tronco e le ha fatte apparire come una chioma verde e festante. Cominciano a perdere il loro verde colore esultante, ingialliscono e, al primo più forte soffio del vento, cadono a terra dove il rosso diventa marrone, poi nero, quindi poltiglia che pestiamo quasi con insofferenza.
Quando gli uomini tagliano inutilmente gli alberi per farne “ceppeto” da bruciare nelle “stufe” per enormi spropositati e danarosi commerci, senza alcun utile per la comunità - anzi al contrario - , in quel momento abbattono la casa delle foglie, capaci di rendere l’aria più ossigenata, per dare in cambio solo diossina cancerogena. Che immensa differenza esiste tra l’albero e le sue foglie e la cattiveria di uomini rivolti solo al denaro.
Il meraviglioso “paradiso terrestre”, che era il Veneto Orientale, sta scomparendo e specie nel Portogruarese, “stufe” e fumi micidiali stanno crescendo come funghi velenosi tra gli uomini che non vedono più le foglie volteggiare per l’ultima volta al sole e al venticello autunnale. Ma poi arriverebbero altre gemme e altre foglie, per i nostri bambini.
Speriamo che i “siors” non riescano a distruggere anche l’autunno oltre a minacciare seriamente la vita delle persone che lavorano e soffrono.
Di notte, dopo il fumo nero che volteggia nelle case vicine, sogneranno forse inferi infuocati e gehenne paurose e oscure che li bruceranno come i “ceppeti” delle stufe, senza però produrre energia elettrica, ma solo calore infernale, ceneri infuocate e fumo disgustoso in un buio spaventoso ed eterno?
Salviamoli, fermando le “stufe” cattive.
Ugo Padovese
(immagini di Fotoreporter - Portogruaro)