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Annotazioni
Dimmi cosa mangi e ti dirò cosa sei
11-01-2012

L’affermazione non si deve prendere alla lettera, ma se la riferiamo a Portogruaro dove molte tradizioni culinarie si sono protratte ben oltre la prima metà del secolo scorso, posso affermare che il detto non è molto esagerato. Anche per esperienza diretta, abbastanza variegata.

Intanto si può dire che un proverbio italiano che risale al 1627 afferma una situazione che a Portogruaro continuò, praticamente immutabile, per ben oltre tre secoli. Eccolo: “ Nutrita passa natura”: la natura fornisce gli alimenti necessari alla crescita e alla sopravvivenza. Oggi si parla di Kilometro ( 0 ). Allora era una pratica quotidiana.

A Portogruaro i cibi erano sempre legati alle stagioni, non solo, ma anche alle principali celebrazioni religiose. Il trasporto si effettuava con il carretto: vicinissima quindi la provenienza dei prodotti. Un’altra precisazione è necessaria: la panoramica di alimenti che citeremo non può valere in maniera uguale per tutti gli strati sociali. Fino al 1948, specie nelle campagne, si consumò il pane con parsimonia . Quindi la polenta era l’ingrediente fondamentale, a volte quasi unico, per i contadini. Evidentemente con alcune eccezioni, ma non troppe, vista l’occhialuta presenza dei “paroni”. Che dire della ricca fauna del cortile? Alcuni capi, i migliori, costituivano regalie che spettavano ai signori (polli, uova, frutta e simili) da consegnare in date abbastanza ravvicinate e comunque sempre in occasione delle feste religiose. E se avanzava qualche oca ben ingrassata?

A Portogruaro il 30 Novembre, ricorrenza di Sant’Andrea, c’era proprio la sagra delle oche e degli stivali. Molti di questi pennuti quindi passavano di mano ai commercianti dai contadini, che dovevano affrontare le pantanose strade novembrine, con pesanti stivali. Polenta e… stoccafisso, comunemente chiamato baccalà. L’Italia ancora oggi è il primo mercato (90 per cento) per lo stoccafisso delle Lofoten, isole della Norvegia, e il Veneto la prima regione italiana importatrice. Anche oggi, si dirà, il baccalà è una vera e propria leccornia, basti pensare al magro e brillante “ragno” il non plus ultra dello stoccafisso, ancora oggi sulle tavole degli italiani. E’ da dire però che anche nel passato il baccalà si divideva in una quindicina di categorie a seconda della qualità del merluzzo pescato. E per tre buoni terzi del secolo scorso i contadini potevano permettersi solo lo stoccafisso del “loggione”.

I cibi erano legati alle stagioni e alle celebrazioni religiose. Chi era in grado di fruire di tutti i prodotti della terra nel Portogruarese, nel rispetto delle stagioni e dei principali avvenimenti sia religiosi che civili erano i signori che i contadini continuavano a chiamare “siors”. Pure la borghesia portogruarese, anche se in misura minore, fruiva di una scelta di prodotti abbastanza larga e infine, discreta la scelta degli artigiani e degli operai, il cui stipendio era sempre maggiore dei lavoratori della terra. Da Caorle giungeva nella Pescheria situata tra il Lemene e il retro del Municipio, pesce in quantità: di mare ma anche pesci d’acqua dolce, degli stagni, delle paludi e le rane. Ho visto pescatori di rane nelle ore notturne, fino agli anni ’80, fiocinare in un fossato davanti alla mia abitazione in Rione San Francesco. Quando pioveva, quelli che in Francia chiamano escargòt, da noi lumache, venivano raccolti, ripuliti, messi a purgare e quindi preparati con salse speciali. Vino in abbondanza, il migliore quello di Lison, come del resto accade ancora oggi. Pranzi e cene pantagrueliche in occasione di nozze, prima dalla sposa e la sera dallo sposo. L’ultimo pranzo-cena di questo genere al quale fui invitato, fu in una casa di contadini a Cinto Caomaggiore. Se i “siors”, in certe speciali occasioni erano in grado di realizzare, con prodotti di altri paesi, ricette del famosissimo Artusi, non meno variato e spettacolare il pranzo-cena dei contadini sposi. Minestre che ti guardavano con grandi occhi di grasso in superficie; antipasti, arrosti, lessi con cren, maionese e altre specie di spezie. Vari tipi di erba cotta, squisita. Che non finivi di mangiare come le ciliegie. Vino a fiumi, caffè con il “resentin” e poi una lunga pausa per digerire. E taluni per proseguire si comportavano come di frequente erano soliti fare i patrizi romani. E poi ancora panettone, mandorlato e arance.

All’Epifania tutti i piccoli aspettavano veramente la Befana. Per me la prima volta fu amara: la mattina io e mio fratello Luciano ci svegliammo prima del solito; di corsa giù per le scale per staccare la calza dal camino e guardar dentro. Vidi con esultanza una bella moto in miniatura. Caricai la molla ma, invece di correre, il giocattolo sbandò subito e si fermò. Una grande delusione, la prima di tante altre, sicuramente più dolorose. Festa grande a dicembre per l’uccisione del maiale. L’avevo nutrito per molti mesi e d’estate lo lavavo almeno due volte al giorno, anche perché lo “stavolo” era quasi sotto la finestra della mia camera. Salami, salsicce (noi le chiamavamo luganeghe), cotechini, restavano per gran parte dell’inverno ad asciugare appesi alle stanghe dentro il cucinino, unico locale più o meno riscaldato della casa. La sera, quando facevo le lezioni, spesso sul quaderno mi cadeva qualche goccia di grasso.. A Carnevale frittelle, “crostoli” e castagnole. Il primo giorno di quaresima tutti a Concordia a mangiare l’arringa affumicata. A Concordia la tradizione è rimasta, con qualche variante; gestori di trattorie e ristoranti, aggiungendo qualcosa ogni anno, hanno finito per organizzare un vero e proprio Festival quaresimale del gulasch, baccalà (ragno) alla vicentina, risotti e altre specialità non propriamente quaresimali, con una grande varietà di vini e di birra. In barba a Santo Stefano.

A Pasqua il momento più emozionante era centrare con una monetina uno delle uova colorate poggiate sul pavimento. L’uovo centrato era vinto. A san Marco, 25 aprile, fortaia sull’erba. Ricordo che il 25 aprile del 1944 il grande “silos” adiacente al fiume Lemene, a Portogruaro, in borgo San Giovanni, fu bombardato pesantemente da aerei alleati. I facchini della cooperativa della Trattoria “Mignòn” rimasero miracolosamente illesi. Il gestore del silos in segno di giubilo offrì una grande frittata con fiaschi di vino a tutti i facchini, e la festa si ripeté per numerosi anni, fino allo scioglimento della cooperativa. In autunno chi poteva andava a caccia, che a Portogruaro era come giocare al pallone, ma in maniera più corretta. Castagne arrostite il giorno dei Defunti e a ottobre si cominciava a vendemmiare. Nella casa dei miei parenti mezzadri a San Nicolò una volta ci fecero lavare bene i piedi a me e a mio fratello Luciano e poi a sguazzare dentro il tino, per premere l’uva. Ci tirarono fuori quasi subito, mezzo svaniti dagli alcolici sapori provenienti dal mosto del fondo. A Natale pranzo grande con aggiunta di lingua “salmistrada”.

Alcuni particolari li ho confrontati con “ Dal Sile al Tagliamento”, Corbo e Fiore Editori Venezia, a cura della Provincia di Venezia e molte mie esperienze le ho trovate fedeli.
E per concludere, quello di Portogruaro era sicuramente un itinerario enogastronomico che farebbe concorrenza anche ai giorni nostri; ma aveva un difetto: non era per tutti.
 
Ugo Padovese


(immagini di Fotoreporter - Portogruaro)

Inserito da rosetta il 14-01-2012 17:06:25
bei tempi e belle tradizioni
questo articolo fa voglia di venire a visitare Portogruaro e zone limitrofe.Lo farò senz'altro appena possibile!
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