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Annotazioni
“la befana vien de note…”
05-01-2012: Ma talvolta delude

«La befana vien de note, coe scarpe tute rote... ». Non so se quella prima Befana della  mia vita nel borgo delle “casette nove” (rione san Francesco per i non informati) avesse o meno rotte le sue scarpe. Di rotto  purtroppo c’era soltanto un mio giocattolino che avevo sognato da sempre. Era il 1939 e anche  mio fratello Luciano aveva appeso la sua calza alla nappa. Credessimo o meno alla Vecchia che di notte portava “el carbon pe i putei cativi”, eravamo convinti che qualcosa avremmo trovato. Eravamo andati a letto presto, sperando che la notte passasse in fretta.

Ci svegliammo  che albeggiava; giù di corsa per le scale. Le calze pendevano appesantite da qualcosa che le faceva apparire gonfie. Quindi la “befana” era passata. Cominciai a svuotare la calza: caramelle, qualche cioccolatino e anche carbone, ma mi accorsi subito che era di quello dolce. Uno scherzo che è durato nel tempo. E in fondo il giocattolo che attendevo: una  piccola motocicletta lucida, di latta colorata e una chiavetta che serviva per caricarla. Lo feci subito e poi la misi sopra la tavola di cucina: partì, ma immediatamente fece due giravolte e si capovolse.

Sorpreso, provai di nuovo a caricarla, sperando che funzionasse: invano. Come prima, fece due giravolte. Era rotta. In maniera definitiva. Forse la Befana non l’aveva deposta con garbo dentro la calza. La delusione fu grande, era la prima, ma poi ne sarebbero arrivate altre ben più pesanti. Per fortuna il periodo tra Natale e l’Epifania ci aveva regalato momenti di grande gioia. Non sono “ammalato” di passato; anche oggi ogni giorno incontro piccoli eventi che mi rendono felice. Mi piace solo ricordare, senza la pretesa di dire: “Ah, una volta sì …”. Nel passato come nel presente: c’era il bello ed il brutto. Solo che ai vecchi il passato appare migliore perché il tempo solitamente azzera le vicende tristi, drammatiche, luttuose, e ci fa ricordare solo avvenimenti lieti, ammantati da un surplus che si aggiunge con una fantasia generosa. E il progresso? Invidio lo scolaro di otto anni che digita in maniera fantastica il computer, per me un rovello defatigante.

C’era stata la preparazione del presepe; il recupero del materiale dell’anno precedente; via il muschio ormai ingiallito. Lo avremmo recuperato nelle prode dei fossi, con il vento che ci frustava le gambe solo parzialmente coperte dai calzoncini corti o qualche frammento di neve che ci gelava il naso. Mio fratello teneva aperta una borsa grande, io lavorando di coltello tagliavo fette ampie e compatte di terra muschiata , già pregustando un ampio tappeto fresco, vellutato, per poggiare delicatamente le statuine; ma prima la carta stellata e la capanna, che erano state le spese più importanti, assieme alle statuine indispensabili: un Gesù Bambino, la Madonna, San Giuseppe. Immancabili il bue e l’asinello, alcuni  lavoratori che dagli arnesi che recavano in mano si capiva bene cosa facessero; scalpellino, pescivendolo, lattoniere, ciabattino, muratore, maniscalco, “strasser”,  il “guin” che affilava coltelli e forbici, tutti personaggi che noi potevamo scorgere quasi tutti i giorni in centro o in periferia. Non erano ancora di moda i personaggi esotici che ogni anno ci vengono proposti da qualche artista/artigiano di Napoli: Maradona, Garibaldi, Berlusconi e così via. Per loro proprio non c’è posto davanti alla stalla, si sarebbero opposti anche il bue e l’asinello. E poi pastori e un mare di pecore, un gregge che a noi pareva immenso. Erano tante perché ogni anno i piccoli risparmi che destinavamo al presepe solitamente erano indirizzati all’acquisto di pecore, le statuine che costavano di meno e ci permettevano di coprire tutto lo spazio di muschio. Sopra la stalla una stella cometa quella che indicava la via ai Magi. E i Re Magi stavamo attenti di metterli in scena il giorno dell’Epifania, che è quello dei doni. Re Magi Gasparre, Melchiorre e Baldassare. I nomi li ho conosciuti molto più tardi; allora non c’erano né enciclopedie, né internet. Ricordo i doni: oro, incenso e mirra. La mirra ci affascinava in maniera particolare, anche perché non sapevano cosa fosse; c’incantava il nome e quando tanti anni dopo mi venne il ghiribizzo di trovarne il significato nel vocabolario (gommoresina  usata come profumo o unguento), il nome perse quel alone di mistero che mi affascinava nella fanciullezza. Gasparre, Melchiorre e Baldassare quindi facevano la loro apparizione nel presepe soltanto per ultimi, e la sera stavamo davanti al “nostro” presepe illuminato da qualche piccola luce da poche lire, che ogni tanto si spegneva. Era molto bello. E vicino all’Epifania c’era la pinza (“pinsa” nella lingua veneta). La pasta della pinza  che poteva essere semplice o mescolata con bacche, agrumi, pistacchi o altre squisitezze che ne aumentavano il sapore, veniva preparata in casa dalla genitrice. Il tutto era poi riversato in un recipiente, di solito una mastella, un peso non eccessivo che poteva essere trasportato da un bambino , ma tassativamente i portatori erano due. Di rigore c’era anche mio fratello. Per il piacere di andare dal fornaio che, come pagamento, prelevava un piccola parte dell’impasto, che poi veniva cucinato nel forno. Si ripassava qualche ora dopo. Ancora calda, al ritorno ne mangiavamo qualche brandello. Squisita. A me piaceva la “pinsa” un po’ dura solo farina e semola, non impreziosita. Dura come il freddo delle nostre stanze, dura ma deliziosa come la neve che cominciava a sostare nella terra imbiancata, a far mucchio, a crescere, dandoci l’impressione che la nostra casa diventasse un’isola in un mare bianco infinito. E poi il penultimo evento la “casera”. Non assomigliava a quelle attuali: sempre più alte, sempre più sofisticate come quelle innalzate in una piattaforma in mezzo al fiume, o altre imbottite di micce, petardi e anche polvere da sparo, che poi arrivavano i carabinieri. La nostra casera era fatta soltanto di canne, le poche che restavano nei campi dopo la raccolta del granoturco. I contadini facevano incetta anche delle canne, sparagnini e per la casera ne rimanevano poche. Ogni borgo una casera, una piccola pila di canne, qualche stecco di legno secco, un po’ di paglia alla base e tanta attesa. Alle prime ombre della sera veniva accesa che ci sembrava un piccolo vulcano di campagna. Restavamo lì fino a  che le ultime braci non si spegnevano definitivamente. Poi a casa a mangiare la “pinsa” in attesa della Befana, della calza da aprire, della piccola moto acciaccata alla prima partenza, una delusione infinita. Non sembrerà, ma realtà o fantasia, com’era bello nel 1939 l’ultimo Natale felice prima della partenza di mio padre per Torino fantaccino dell’antiaerea. Tornato a casa due anni dopo, sfinito nel corpo e nell’anima. E poi leggevo del D’Annunzio o di Marinetti che “esaltavano” il massacro dell’Isonzo, inneggiando alla guerra come “la salute del popolo”.
Un po’ drastica.
Meglio Ungaretti: “Ma nel cuore /nessuna croce manca/ E’ il mio cuore / il paese più straziato/.

Ugo Padovese

Inserito da Giuseppe il 05-01-2012 18:59:32
Befana d'altri tempi
Quanti bei ricordi..... Quella calza piena di mandarini, ...la gioia per un "fucile di latta con il tappo", ...l'ansia dell'attesa, ...la gioia della sorpresa, ...il piacere di stare insieme con la gente attorno al fuoco della casera mangiando la pinsa .... questa è stata per sempre la mia MERAVIGLIOSA befana....................

Inserito da Ugo Padovese il 09-01-2012 15:11:02
Risposta
Egregio signor Giuseppe, siamo in perfetta sintonia. Ci piace ricordare qualcosa che un tempo ci ha emozionato. E nessuno ce lo può vietare. Ad altri piacerà lo spettacolo della casera imbottita di copertoni e di polvere pirica. Liberissimi di godersela. A ognuno il suo. Non si tratta qui di giudicare se era più bella la nostra o la loro Befana. Si tratta di due cose diverse, di due emozioni del tutto diverse. La nostra casera era piccola, cordiale e piena di certe emozioni. Quella altissima piena talvolta di pallottole che esplodono, (è successo) un altro spettacolo, con clamoroso arrivo dei Carabinieri, che avrà divertito i presenti. A ognuno il suo. Cordiali saluti signor Giuseppe. Sognare fa bene, qualche volta, in questo mondo non propriamente idillico. Auguri. Ugo Paodvese
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