Così cantavano, nella prima metà del secolo scorso, le filandine portogruaresi, concordiesi e friulane impegnate davanti alle caldaie, con le mani dentro l’acqua bollente a sessanta gradi. Questa e moltissime altre notizie – drammatiche le più, altre di vanto per le capacità della donna di elevarsi un poco, alcune di misurata soddisfazione per una “filanda” che dava comunque un reddito complementare , importante nella poverissima società contadina mezzadrile e affittuaria.
La storia di questa “avventura” durata oltre quarant’anni , la dobbiamo a Gianni Marella, un letterato dagli interessi disparati che, ultimo presidente del Covenor (Consorzio dei Comuni del Veneto Orientale), ha coordinato la raccolta – nelle varie parlate gergali – delle vicende sociali e lavorative che complessivamente hanno interessato migliaia di donne (assunte o riassunte). Doveva essere il primo lavoro di recupero del nostro passato (dialetti, modi di vivere, esperienze, paghe, imbrogli, momenti di gaia socializzazione, sofferenze fisiche e morali): per vari motivi è rimasto l’unico ricordo della filanda, perciò tanto più importante. Sofferenze? “ Pochi soldi, tante de quee bote, come i mussi che i corre pa’ e strade ghe ne gavemo ciapàe”. “E po’ dopo el gera un paròn che ‘e cucava tutte ‘e bèe tosate poh! Ah quele. Se le ga cucàe tutte lu. ‘E ghe stava perché ghe dava el meio posto”. “Dopo gavemo cambià paroni”.
Non si deve certo generalizzare; ci furono quattro gestioni: la prima, forse la più dura specie per la “dimenticanza” dei contributi che alla fine striminzivano la pensione, sembra fosse nelle mani di una facoltosa famiglia che “dominò” per almeno due generazioni. “El ghe dava dèe lavade, dèe tirae de cavèi, e sberle adiritura”. Acqua bollente in faccia, strattonamenti per i capelli e botte vere e proprie, non era la regola ma dipendeva dall’indole più o meno umanitaria dei direttori. Per ricevere questi trattamenti bastava “parlare durante il lavoro”, proteggere nell’acqua fredda per qualche secondo in più le mani piagate, commettere uno sbaglio nella legatura dei sottilissimi fili di seta, sbagli che comportavano anche delle multe salate con pesanti trattenute sul compenso mensile.
I tempi della maternità o quelli di malattia non venivano conteggiati nello stipendio. I momenti migliori, anche per le paghe, coincidono con gli anni della seconda guerra mondiale; c’era molta richiesta di seta da parte dell’esercito per la confezione dei paracaduti: paghe più abbondanti di sempre, lavoro straordinario pagato, pagate anche le ore di abbandono della filanda quando la città veniva bombardata. Dopo il ’43 fu semidistrutto il “silos” a un centinaio di metri dalla filanda, al di là del Lemene. Paghe alte si diceva: con lo stipendio di un giorno la filandera riusciva a comprasi un vestito. Al cinema si andava con cinquanta centesimi, sia al “Sociale” che al “Pellico”. Il periodo felice durò poco.
La prima filanda era situata in via Cavour dal 1912 fino a dopoguerra avanzato, praticamente fino al ’24. La seconda filanda, molto più grande, con diversi fabbricati, macchinari più potenti e una villetta liberty’ per il direttore, iniziò a funzionare nel 1925 in borgo Sant’Agnese. Proprio il luogo dove oggi sorge un enorme complesso edilizio che nei documenti burocratici è denominato, con involontaria ironia “filanda”. La nuova “filanda” incombe, con la sua massiccia mole moderna, sui più umili edifici ma di ben maggiore nobiltà: una stupenda Chiesa del Trecento, con annesso un Oratorio con affreschi sempre del secolo quattordicesimo e poi Villa Martinelli un complesso veneziano del Settecento.
Questi requisiti non sono stati sufficienti per gli uffici comunali, per i proprietari del lotto e per i costruttori a evitare uno stridente connubio, tra il “nuovo” e l’ “antico”. Avessero concesso almeno uno spazio di distinzione tra un tesoro architettonico e culturale e il moderno cumulo di “cose” che procureranno solo guadagno. L’ “antico” meritava un maggior “rispetto”, ma la “sacra fames auri” nel settore edilizio continua a imperversare anche a Portogruaro.
Nel ’54 la concorrenza vincente delle sete cinesi e giapponesi e le fibre sintetiche (nailon) costrinsero l’ultimo proprietario (le filandere lo chiamavano comm. Benati e lo stimavano) a chiudere. Benati comunque concesse gratuitamente l’uso della Filanda alle operaie che si costituirono in cooperativa che sopravvisse soltanto un anno – il 1956- . Un grosso furto subito e prezzi di vendita molto inferiori ai costi di produzione sempre più alti, fecero fallire l’esperimento con grosse perdite anche delle operaie che, pur di continuare, avevano lasciato gran parte degli stipendi a disposizione della gestione della Filanda.
Negli anni ’80 i vari fabbricati della Filanda e la villa“Liberty” furono dati in pasto alle “ruspe”, con i risultati che tutti possono “gustare”, magari al supermercato interno.
Ancora una notizia e una considerazione ricavata dalle lunghe interviste con le ex filandine. Perché dal Friuli? Il Friuli da tempo aveva una lunga esperienza di Filande; molte maestre- filandine furono assunte a Portogruaro per insegnare il mestiere a quelle locali.
Perché una tensione appariscente e un velato disprezzo tra Concordia e Portogruaro, che si è affievolito fino quasi a scomparire solo nei nostri giorni? E’il tradizionale contrasto tra città e campagna. A Portogruaro: agrari, redditieri, uffici burocratici, organi statali, piccoli borghesi e un dialetto diverso, veneto. A Concordia un gergo particolare con un connubio tra friulano, veneto e balcano, mezzadri e pescatori di fiume e di valle: contadini a Concordia, percettori di rendita a Portogruaro. La scintilla, quasi rancorosa, una volta non poteva che scattare, protagonista anche un mio antenato latamente anarchico: “Jacun Bestia”.
Oggi si è quasi spenta, anche se i concordiesi continuano a chiamare “siors quei de Porto”, con una velata sfumatura ironica.
Ugo Padovese
(immagini di Fotoreporter - Portogruaro)
La Filanda
Dove si trovano le immagini delle filande?